Gaza e oltre: il lascito di Biden e Blinken per israeliani e palestinesi

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Che orizzonti e prospettive dischiude l’accordo di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza raggiunto in questi ultimi giorni tra Israele e Hamas? Quali esiti lascia immaginare? Le variabili, e talune costanti, in campo restano numerose e dunque risposte nette non sono possibili.

Pochi giorni fa, a Washington, ha illustrato il suo punto di vista il segretario di Stato uscente Antony J. Blinken, in un discorso interamente dedicato alla politica estera americana in Medio Oriente dopo i massacri del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele.

Il 20 gennaio terminerà il mandato del presidente Joe Biden e si insedierà per la seconda volta Donald Trump. Blinken ha guardato indietro ma anche avanti e, in qualche modo, ha inteso passare il testimone a chi gli succederà. Non è detto che tutto ciò che tramanda sarà accolto e assimilato dal nuovo governo americano, ma non è neppure certo il contrario: nella politica estera degli Stati vi sono acquisizioni che sopravvivono all’avvicendarsi dei ministri. Così è stato, ad esempio, per gli Accordi di Abramo, partoriti dalla prima presidenza Trump e poi convintamente abbracciati e sostenuti dall’esecutivo Biden.

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D’altronde, nel contesto attuale il coinvolgimento degli Stati Uniti in Medio Oriente rimane ancora tutt’altro che secondario e trascurabile, comunque lo si valuti.

L’intervento di Blinken il 14 gennaio nella sede dell’Atlantic Council è stato sonoramente interrotto per tre volte da alcune manifestanti presenti tra il pubblico. Prima di essere allontanate, hanno potuto rinfacciare a gran voce all’uomo politico l’avallo suo e del presidente Biden alla violenta offensiva israeliana nella Striscia di Gaza. Ricordiamolo: si parla del più lungo e sanguinoso tra i conflitti in Terra Santa dal 1948 ad oggi, con decine di migliaia di vite innocenti stroncate e sofferenze inenarrabili (cinicamente messe in conto dagli strateghi di Hamas); per non dire delle devastazioni materiali e degli impatti sull’ambiente.

Il nuovo scenario mediorientale

Blinken ha sottolineato, in apertura, che le ricadute degli eccidi del 7 ottobre 2023 hanno mutato drasticamente il quadro in Medio Oriente. L’iniziativa militare israeliana, avallata, armata e coperta politicamente e diplomaticamente dagli Stati Uniti ha ridimensionato drasticamente le capacità militari di Hamas nella Striscia di Gaza e di Hezbollah in Libano; ha costretto sulla difensiva l’Iran degli ayatollah; ha contribuito al rovesciamento di Bashar al-Assad in Siria, rimasto privo del sostegno armato dei suoi principali alleati: Mosca, Teheran e Hezbollah.

Blinken, come il premier israeliano Benjamin Netanyahu, saluta questa svolta come un successo e un’opportunità per il futuro.

«Non conta solo quanto abbiamo ottenuto – sostiene l’ormai ex ministro degli esteri statunitense –, ma anche ciò che abbiamo impedito. Quando ho viaggiato attraverso la regione nei giorni successivi al 7 ottobre 2023, ho sentito dai partner un palpabile senso di allarme per una guerra regionale imminente. La combinazione di azioni diplomatiche e militari americane, e l’assistenza per preservare e rafforzare il deterrente di Israele, hanno contribuito a impedire che ciò accadesse nelle settimane successive al 7 ottobre e in molteplici altri momenti critici da allora. (…) L’equilibrio di potere in Medio Oriente sta cambiando drasticamente, e non nel modo in cui Hamas e i suoi sostenitori speravano o pianificavano. E tuttavia, la regione rimane densa di rischi: dalla fragile transizione politica della Siria alla disperata volontà dell’Iran di ripristinare la propria deterrenza, con tutto ciò che ciò potrebbe implicare riguardo alle sue ambizioni nucleari, agli attacchi in corso degli Houthi contro Israele e le rotte di navigazione internazionali, alla mancanza di opportunità, alla repressione del dissenso e dei diritti umani in diversi Paesi».

Guadagni a caro prezzo

Bkinken riconosce che «i guadagni strategici ottenuti negli ultimi 15 mesi sono reali, ma sono stati ottenuti a un costo enorme e straziante». Cita le famiglie degli israeliani kibbutz assaltati, gli spettatori dei concerti massacrati, i bambini e i soldati uccisi nell’attacco del 7 ottobre, insieme alle sofferenze incommensurabili dei civili palestinesi: «bambini, donne, uomini intrappolati in un conflitto che non hanno iniziato e che non sono in grado di fermare. Decine di migliaia di persone uccise a Gaza. Quasi l’intera popolazione ha perso una persona cara. Quasi l’intera popolazione soffre la fame. Quasi l’intera popolazione, circa due milioni di persone, è stata costretta a sfollare, più volte. La maggior parte non ha una casa dove andare, poiché molte case a Gaza sono state danneggiate o distrutte. Gaza è uno dei posti più pericolosi al mondo dove essere un bambino, un civile, un giornalista».

Anche il ministro statunitense mette in luce – come hanno fatto molti in Terra Santa in questi mesi – un altro dramma: «Come sempre accade nei conflitti, più le persone soffrono, meno provano empatia per la sofferenza di coloro che si trovano dall’altra parte. In tutto il mondo arabo e musulmano, la maggior parte crede che il 7 ottobre non sia mai accaduto, o se è accaduto, che si sia trattato di un legittimo attacco all’esercito israeliano. In Israele, non ci sono quasi resoconti sulle condizioni a Gaza e su ciò che le persone di là sopportano ogni giorno. Questa disumanizzazione è una delle più grandi tragedie del conflitto. Il defunto cardinale [Carlo Maria] Martini una volta parlò della necessità per tutti noi di poter provare condivisione nel dolore»…

Blinken riconosce che anche nelle opinioni pubbliche occidentali, e negli stessi ranghi dell’amministrazione Biden, si sono create spaccature e divergenze sulle scelte politico-militari degli Stati Uniti a fianco di Israele. Spetterà agli storici tirare le somme, dice.

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Idealmente, la politica sua e del presidente Biden ha mirato a creare maggiore integrazione tra i Paesi del Medio Oriente – eliminando i disturbatori, potremmo dire in sintesi –. «Questo perché abbiamo visto che una regione più integrata ha maggiori probabilità di essere stabile e sicura, di offrire opportunità economiche ai suoi abitanti, di trovare soluzioni alle sfide comuni: dalle pandemie e dal terrorismo alle infrastrutture e al fabbisogno energetico. Una regione più integrata è anche in una posizione più forte per evitare che uno dei suoi componenti domini gli altri, o che un Paese esterno domini la regione».

Il futuro della Striscia di Gaza, Blinken lo inserisce nella cornice dell’agognata pace, che veda soddisfatte «le legittime aspirazioni degli israeliani per una sicurezza duratura e dei palestinesi per un proprio stato indipendente e vitale».

Le linee guida su Gaza…

Il capo del Dipartimento di Stato spiega di aver illustrato le linee guida americane già nel novembre 2023 agli altri ministri degli Esteri del G7 riuniti a Tokyo: «una Gaza mai più governata da Hamas o usata come piattaforma per il terrorismo o altri attacchi violenti; una nuova governance a guida palestinese, con Gaza unita alla Cisgiordania sotto l’Autorità nazionale palestinese [Anp]; nessuna occupazione militare israeliana di Gaza o riduzione del territorio di Gaza; nessun tentativo dopo il conflitto di assediarla o bloccarla; e nessuno spostamento forzato della popolazione di Gaza».

Principi che lo stesso Blinken considera più un punto d’arrivo che di partenza. Il primo passo è, appunto, il cessate il fuoco di sei settimane raggiunto in questi giorni di metà gennaio 2025.

«Per molti mesi, abbiamo lavorato intensamente con i nostri partner per sviluppare un piano dettagliato post-conflitto che consentisse a Israele di ritirarsi completamente da Gaza, impedisse a Hamas di riprendersi il controllo e prevedesse la governance, la sicurezza e la ricostruzione di Gaza, basandoci sui principi che ho inizialmente esposto a Tokyo. Consegneremo questo piano all’amministrazione Trump affinché lo porti avanti», dice Blinken.

… e un piano da attuare

Due gli elementi fondamentali del piano elencati dal segretario di Stato uscente:

• «L’Autorità nazionale palestinese [Anp] inviti partner internazionali a contribuire alla creazione e alla gestione di un’amministrazione ad interim responsabile di settori civili chiave a Gaza, come banche, acqua, energia, sanità e coordinamento civile con Israele. La comunità internazionale fornirebbe finanziamenti, supporto tecnico e supervisione. L’amministrazione ad interim includerebbe palestinesi di Gaza e rappresentanti dell’Anp, selezionati dopo una consultazione significativa con le comunità di Gaza, e trasferirebbe la piena responsabilità a un’amministrazione Anp completamente riformata non appena possibile. Gli amministratori opererebbero in stretta collaborazione con un alto funzionario delle Nazioni Unite, che dovrebbe supervisionare gli sforzi internazionali di stabilizzazione e recupero».

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• «Una missione di sicurezza ad interim sarebbe composta da membri delle forze di sicurezza di nazioni partner e da personale palestinese selezionato. Le sue responsabilità includerebbero la creazione di un ambiente sicuro per gli sforzi umanitari e di ricostruzione e il controllo della sicurezza delle frontiere, cruciale per prevenire il contrabbando che consentirebbe ad Hamas di ricostruire la propria capacità militare. (…) Alcuni dei nostri partner hanno già espresso la disponibilità a contribuire con truppe e forze di polizia per una simile missione – ma solo se si concorda che Gaza e la Cisgiordania siano riunificate sotto un’Anp riformata come parte di un percorso verso uno Stato palestinese indipendente. Ed è qui che sta la difficoltà. Raggiungere un accordo richiederà a tutte le parti di trovare la volontà politica per prendere decisioni difficili e fare compromessi altrettanto difficili».

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Dall’Anp gli Stati Uniti e i loro alleati si aspettano che attui «riforme rapide e di vasta portata per costruire una governance più trasparente e responsabile, continuando un processo iniziato l’anno scorso».

Israele, invece, «dovrà accettare di riunificare Gaza e la Cisgiordania sotto la leadership di un’Anp riformata».

Tutti – ammonisce Blinken – «devono abbracciare un percorso basato su condizioni e tempi definiti per la formazione di uno Stato palestinese indipendente. (…) Tempi definiti, perché nessuno accetterà un processo senza fine. I palestinesi hanno bisogno e meritano un orizzonte chiaro e ravvicinato per l’autodeterminazione politica. (…) Condizioni, perché sebbene i palestinesi abbiano diritto all’autodeterminazione, a quel diritto corrisponde una responsabilità. Nessuno dovrebbe aspettarsi che Israele accetti uno Stato palestinese guidato da Hamas o da altri estremisti; che sia militarizzato o che abbia milizie armate indipendenti; che si allinei con Iran o altri che rifiutano il diritto di Israele ad esistere; che educhi e predichi il rifiuto; o che, senza riforme, diventi uno Stato fallito».

«Gli israeliani devono decidere quale relazione vogliono con i palestinesi. Non può essere l’illusione che i palestinesi accettino di essere un non-popolo senza diritti nazionali. Sette milioni di ebrei israeliani e circa cinque milioni di palestinesi sono radicati nella stessa terra. Nessuno dei due se ne andrà».

Parole di Blinken che molti però in Terra Santa non condividono. L’idea di potersi prima o poi sbarazzare della controparte ha molti sostenitori. Se tra i palestinesi il sogno di poter costringere gli ebrei ad andarsene è un’utopia velleitaria che arma la mano di terroristi, sul versante israeliano è ben altro: da decenni si esprime con la progressiva e inarrestabile occupazione di pezzi dei Territori palestinesi di Cisgiordania da parte dei coloni. Ai quali i vari governi dello Stato ebraico hanno sempre – più o meno convintamente – assicurato copertura politica, sostegno logistico e protezione militare. Una politica del fatto compiuto che non ha suscitato l’opposizione reale e ferma dei governi amici di Israele, il che ha contribuito a rendere la creazione di un credibile Stato di Palestina via via più difficile da conseguire. Ha un bel dire oggi Blinken che «gli israeliani devono abbandonare il mito di poter portare avanti un’annessione de facto senza costi e conseguenze per la democrazia, la posizione e la sicurezza di Israele».

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Se Hamas si rigenera

Tornando su Gaza, il segretario di Stato di Joe Biden soggiunge con amaro realismo: «Abbiamo a lungo sottolineato al governo israeliano che Hamas non può essere sconfitto solo con una campagna militare – che senza un’alternativa chiara, un piano post-conflitto e un orizzonte politico credibile per i palestinesi, Hamas, o qualcosa di altrettanto odioso e pericoloso, ricrescerà. È esattamente ciò che è accaduto nel nord di Gaza dal 7 ottobre. Ogni volta che Israele completa le sue operazioni militari e si ritira, i militanti di Hamas si riorganizzano e riemergono perché non c’è nulla che riempia il vuoto. Infatti, stimiamo che Hamas abbia reclutato quasi tanti nuovi militanti quanti ne ha persi. Questo è un presupposto per un’insurrezione duratura e una guerra perpetua».

Un conflitto perenne non è sostenibile, né dagli israeliani né dai palestinesi o dagli altri popoli mediorientali. A lungo andare non c’è alternativa alla pace. La vorremmo giusta e duratura, ma non farà felici tutti.



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