Secondo l’Iran Human Rights Monitor (Iran HRM), una Ong con base a Oslo in Norvegia, il 2024 è stato segnato da una significativa escalation delle violazioni dei diritti umani nel Paese, con il continuo ricorso a detenzioni arbitrarie, torture, repressione del dissenso ed esecuzioni della pena di morte.
Con l’intensificarsi della crisi del regime, il ritmo delle esecuzioni è aumentato con almeno 993 esecuzioni in ottantasei prigioni, tra cui trentadue donne, sette minorenni, 119 della minoranza Baluchi e quattro impiccagioni pubbliche. Circa la metà delle condanne a morte è stata eseguita nell’ultimo trimestre dell’anno. E il nuovo anno inizia con una ondata di esecuzioni: già dodici impiccagioni avvenute il primo gennaio 2025.
Il rapporto dell’Iran HRM certifica per lo scorso anno il più alto numero di donne giustiziate (trentadue) con la pena capitale in diciassette anni. Dal 2010 al 2024, sono state giustiziate almeno 241 donne: 114 sono state giustiziate per omicidio, 107 per reati di droga, quattro per accuse legate alla sicurezza e sedici con accuse sconosciute. 121 donne (50%) sono state identificate solo con le iniziali o sono rimaste completamente anonime.
Molte donne giustiziate per omicidio sono vittime di violenza domestica o di abusi sessuali e hanno agito per disperazione. Circa il 70% di queste donne sono state accusate di aver ucciso i loro mariti, spesso in matrimoni violenti. Tuttavia, il sistema giudiziario iraniano raramente considera queste circostanze come attenuanti nella sentenza.
La repressione sistematica dei diritti delle donne
Il regime iraniano ha intensificato la repressione sistematica dei diritti delle donne e come dichiara a Agenda17 Shahrzad Sholeh, presidente dell’Associazione delle donne democratiche iraniane in Italia (Addii), “le donne iraniane affrontano una persecuzione implacabile, a causa delle loro idee o dei loro legami con gruppi di opposizione o della semplice partecipazione alle proteste.
Fare una qualsiasi attività politica mette le donne in pericolo e quando sono arrestate, le torture più feroci sono sulle donne”.
“Da sempre – continua Shahrzad Sholeh -, il regime iraniano è un regime misogino e la repressione colpisce le donne in tutti gli aspetti della loro vita perché il regime sa che la sua caduta arriverà per opera delle donne. Le accuse per le donne condannate a morte possono essere molto generiche come moharebeh (inimicizia contro Dio) e basti pensare che il Codice penale iraniano consente al padre di uccidere le figlie, e in questi casi il colpevole non rischia la pena di morte ma può essere condannato al carcere e al pagamento di una somma di denaro.”
Come abbiamo scritto nel precedente articolo, secondo il codice penale islamico la qisas o punizione in natura è un diritto della famiglia della vittima di omicidio quindi le madri possono anche perdonare completamente l’assassino e rinunciare al pagamento.
Shahrzad Sholeh aggiunge: “da oltre trent’anni ci occupiamo di attività a favore delle donne iraniane e cerchiamo di dare voce a chi non ne ha. Abbiamo fatto campagne contro la lapidazione e la pena di morte, alcune persone siamo riuscite a salvarle, altre purtroppo no. È urgente per noi richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulle donne, uomini, minoranze Baluchi e minori che rimangono nel braccio della morte perché si tratta di un numero elevatissimo. Nelle prigioni iraniane ogni martedì da cinquantuno settimane, soprattutto le donne, fanno uno sciopero della fame in uno sforzo disperato per richiamare l’attenzione sulla pena di morte che rappresenta uno strumento di repressione e intimidazione.”
Come ci racconta Shahrzad Sholeh è importante mantenere i riflettori accesi su queste persone e fare i nomi dei condannati a morte per mettere pressione sul regime.
Una delle donne in attesa dell’impiccagione nella prigione di Evin è l’attivista curda Pakhshan Azizi, che è stata condannata a morte in relazione alle sue pacifiche attività umanitarie. Amnesty International la descrive come un’operatrice umanitaria e attivista della società civile che dal 2014 al 2022 ha aiutato donne e bambini nei campi nel Nord-Est della Siria e nel Nord dell’Iraq sfollati dai territori occupati dallo Stato islamico e ha definito il suo processo “gravemente ingiusto”.
Un’altra donna per cui si sono attivate le organizzazioni per i diritti umani è Maryam Akbari Monfared, che è chiusa in carcere in condizioni disumane da oltre quindici anni senza la possibilità di vedere i familiari, nemmeno il marito, per aver cercato la verità sulla morte dei suoi quattro fratelli. Il trasferimento punitivo di Maryam Akbari Monfared nel carcere di Semnan fa parte di una tendenza più ampia, documentata dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Iran, che ha comportato “il trasferimento di difensori dei diritti umani in carceri lontane dalle loro famiglie come punizione.”
Le storie delle donne incarcerate e mandate a morte in Iran evidenziano le dimensioni specifiche di genere della pena di morte, anche se ci sono ancora tanti minori, uomini e persone che fanno parte di minoranze come i curdi e Baluchi che sono in attesa dell’esecuzione della pena di morte.
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