La nobel Narges Mohammadi a Open: «Lotto per le donne ancora in carcere. Cecilia Sala? Ha evidenziato i pericoli dei giornalisti in Iran»

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L’attivista iraniana, premio Nobel per la pace 2023 parla dalla sua casa di Teheran: «Un prigioniero è un “essere umano” che lotta per la sopravvivenza in modi diversi, Cantare, ballare, tagliare i capelli sono tutti modi per mantenere vivo il senso della vita»

«Ogni prigioniero è un “essere umano”, e ogni essere umano lotta per la sopravvivenza in modi diversi: cantare, ballare, tagliare o accorciare i capelli, indossare vestiti colorati, ridere e gioire, tutti questi sono modi per mantenere vivo il senso della vita, anche tra i prigionieri». A dirlo a Open è Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace 2023. L’attivista iraniana, che sta scontando una pena di oltre dieci anni per aver difeso i diritti delle donne in Iran, si trova nella sua casa a Teheran, sottoposta a cure e trattamenti medici. Il 4 dicembre scorso era stata rilasciata, per tre settimane, per le sue condizioni fisiche precarie a seguito della rimozione di un tumore benigno e di un intervento eseguito in cui le era stato fatto un innesto osseo. Non è ancora tornata tra le «mura buie e fredde» della famigerata prigione di Evin, dove lei e le sue compagne «resistono». I giorni fuori dal carcere verranno probabilmente recuperati alla fine della sua condanna, aveva fatto sapere il suo legale a inizio dicembre. Nonostante sia stata sottoposta a detenzione arbitraria, tortura e maltrattamenti, Mohammadi non ha mai smesso di lottare. Per lei, le sue compagnie, le donne iraniane, per le generazioni future. E per un’Iran libero e democratico.

Insieme alle sue compagne nella prigione di Evin continua a battersi per l’uguaglianza, i diritti, la democrazia e la libertà in Iran, anche per le generazioni future. Cosa significa portare avanti la lotta all’interno del carcere?

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«Io credo che la vita dietro le mura buie e fredde delle prigioni fluisca in modo vibrante, intrecciate con l’elemento della “resistenza”. Quando la resistenza, che scaturisce da una volontà umana indomita, è forte, la vita – in tutte le sue sfaccettature – brilla dentro le mura della prigione. Ho testimoniato la crescita, la vitalità e la resilienza delle donne condannate alle punizioni più dure, dalle condanne a morte a lunghe pene detentive o malattie gravi e croniche – persino donne anziane. Deve essere riconosciuto che un prigioniero è un “essere umano”, e ogni essere umano lotta per la sopravvivenza in modi diversi. Cantare, ballare, tagliare o accorciare i capelli, indossare vestiti colorati, ridere e gioire, tutti questi sono modi per mantenere vivo il senso della vita, anche tra i prigionieri ordinari». 

Cosa rappresentano questi atti nelle prigioni dell’Iran? 

«Nelle prigioni politiche e ideologiche dell’Iran, questi atti diventano parte della resistenza perché sfidano le politiche delle autorità carcerarie. Più i prigionieri continuano la loro lotta, in particolare attraverso la solidarietà, e fanno sentire la loro voce di protesta alla società, più forte diventa il loro senso della vita e della speranza. Alcuni pagano un prezzo pesante per creare e mantenere questo stato. Il governo non può tollerare una tale resilienza, così cerca di sopprimerla. Nel 2020, ad esempio, sono stata processata e condannata per aver organizzato un raduno nel reparto femminile del carcere di Evin».

Cosa significa per una donna essere detenuta a Evin? E come si sopravvive in isolamento? 

«Quando si parla del carcere di Evin, è essenziale menzionare i reparti di sicurezza dove i detenuti sono tenuti in isolamento. Ho trattato questo tema nel mio libro, Tortura Bianca. Mentre altri settori della prigione ospitano i prigionieri, collettivamente, in stanze con accessi a cortili e spazi per attività quotidiane: le condizioni non sono uniformi in tutto Evin. Ma le celle di isolamento nei reparti di sicurezza sono luoghi di torture mentali, emotive e anche fisiche molto gravi, che sono orribili. Le prigioni nelle città più piccole sono, però, molto peggio di Evin. Sono stata incarcerata a Zanjan (due volte) e nella prigione di Qarchak. Le condizioni in queste prigioni sono profondamente disumane e estremamente difficili da sopportare.

Quanto è stato importante e lo è tuttora il movimento “Donne, vita, libertà” per il futuro dell’Iran e perché?

«“Donna, Vita, Libertà” è un movimento completo che ha spinto in modo persistente e risoluto profonde trasformazioni sociali e politiche. Il movimento incarna la volontà del popolo iraniano, in particolare delle donne e dei giovani, di ottenere la libertà e il rispetto della loro dignità e dei diritti umani».

Una settimana fa è stata scarcerata la giornalista Cecilia Sala dopo 20 giorni di detenzione a Evin senza un’accusa. Cosa ha pensato quando ha saputo che era stata incarcerata?

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«La notizia dell’arresto, dell’isolamento e della successiva liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala mette nuovamente in evidenza la realtà che giornalisti, reporter e professionisti dei media in Iran sono costantemente a rischio di detenzione, pressioni, prigionia e torture. Questo sottolinea come il regime religioso autoritario metta in pericolo la libertà di espressione».



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