L’INTERVISTA
Lunedì 27 gennaio il concerto del Dèdalo ensemble. Un evento tradizionale, organizzato in collaborazione con Casa della Memoria, che per la prima volta si svolgerà in sala Grande
Dédalo ensemble protagonista, con la direzione di Vittorio Parisi, del concerto che si terrà il 27 gennaio al Teatro Grande
Dédalo ensemble protagonista, con la direzione di Vittorio Parisi, del concerto che si terrà il 27 gennaio al Teatro Grande
Ottant’anni da Auschwitz. Una ragione in più per non dimenticare il punto più basso che l’umanità abbia toccato (e possa toccare). Per onorare il ricordo delle vittime dell’Olocausto, lunedì 27 gennaio il Teatro Grande ospiterà a Brescia il concerto del Dèdalo ensemble. Un evento tradizionale, organizzato in collaborazione con Casa della Memoria, che per la prima volta si svolgerà in Sala Grande. In programma c’è l’esecuzione in forma di concerto di Der Kaiser Von Atlantis di Viktor Ullmann, opera di denuncia lucida e coraggiosa composta nel 1943 durante l’internamento nel ghetto di Theresienstadt (Terezín), censurata dai nazisti che ne vietarono la rappresentazione. Rappresentarla oggi, nel 2025, significa riflettere una volta di più sulla natura umana. Missione affidata alla formazione che a sua volta taglia il traguardo di una ricorrenza tonda: è attivo dal 1995 nel campo della nuova musica il dédalo ensemble, di cui è direttore artistico e stabile Vittorio Parisi.
«Il ricordo che oggi qualcuno vorrebbe cancellare va sempre assolutamente onorato – sottolinea Parisi -. Questo è un progetto che io avevo proposto al sovrintendente del Grande Umberto Angelini quasi due anni fa, dopo un nostro concerto al Teatro. Avevo messo gli occhi addosso a Der Kaiser Von Atlantis, che avevo programmato a Milano con gli studenti del Conservatorio. Il sovrintendente conosceva l’opera e aveva proposto di programmarla quest’anno, visto che il 27 gennaio cadono gli 80 anni della liberazione del campo di Auschwitz».
L’autore, Viktor Ullmann, è stato ucciso lì in una camera a gas come tutta la sua famiglia.
Un motivo in più per organizzare un evento di questo tipo.
È mai stato ad Auschwitz?
No. Può darsi che ci vada, ma ne ho un po’ timore. Nella primavera del 2023 sono stato invece alla sinagoga di Praga, dove sono conservati i nomi di tutti gli ebrei boemi e moravi trucidati durante la seconda guerra mondiale. A una sessantina di chilometri da Praga, a nord, c’era il campo di smistamento di Terezín, che serviva come specchietto per le allodole: era stato organizzato dai nazisti per far credere che lì gli ebrei fossero liberi di svolgere attività commerciali e artistiche. Furono fatti anche dei film per documentarlo e attestare che tutto ciò che si diceva contro il nazismo era tutta propaganda. Due anni fa una coppia di turisti americani aveva una guida anziana che parlava con loro degli spettacoli musicali organizzati lì; io mi sono intromesso, citando l’opera scritta da Ullmann. La guida mi ha risposto: «Vero, mio padre era direttore di scena quando cercarono di rappresentarla». Sono rimasto di sasso.
È un apologo contro la dittatura.
Motivo per cui il librettista e lo stesso Ullmann furono mandati a morire. Per fortuna l’autore fece in tempo ad affidare la partitura ad uno degli interpreti, uno dei due bassi, che è sopravvissuto alla guerra e l’ha portata con sé a Londra. Per me è la cosa più bella che sia stata mai scritta in un campo di concentramento.
Il suo curriculum non ha confini: direttore d’orchestra milanese, ha studiato al Conservatorio Verdi ma anche in Olanda con il direttore russo Kondrashin, ha debuttato giovanissimo al Teatro Petruzzelli di Bari nel 1979, dopodiché ha diretto orchestre sinfoniche e da camera ovunque: Germania, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Francia, Svizzera, Albania, Turchia, Slovacchia, Romania, Spagna, Polonia, Ungheria e Kazakistan fra le sue tappe. Ha registrato per diverse radiotelevisioni, collaborato con giganti quali Berio e Cage, con solisti, cantanti e attori in festival di caratura internazionale. Com’è iniziato tutto questo? Qual è stata la scintilla?
Mio padre era un amante della musica classica e lirica. Avrò avuto 5 anni quando ascoltai per la prima volta lo Scherzo della Sinfonia 9 di Beethoven. Mi colpì così tanto che chiesi di poter studiare musica. Ho vissuto tappe indimenticabili in particolare in Australia e in Nuova Zelanda, a Sydney e a Auckland dove mi sono sentito letteralmente proiettato in un’altra dimensione.
Una vita anche alla direzione: primo direttore dell’Orchestra del Teatro Angelicum dal 1984 al 1988, direttore associato della Filarmonica del Conservatorio di Milano dal 2000 al 2003, direttore artistico e stabile dei Solisti Aquilani dal 2003 al 2005. Fino al dédalo ensemble.
Trent’anni bellissimi per quanto difficili: il nostro è sempre stato considerato un repertorio un po’ di nicchia. Abbiamo dovuto lottare con le difficoltà economiche cercando di programmare le cose migliori nella maniera migliore. I nostri strumentisti lavorano tutti in altre orchestre: il collante comune è la passione, la volontà di portare avanti un’idea di arte contemporanea senza rifugiarci nel passato che peraltro per ragioni di lavoro frequentiamo già abbondantemente tutti quanti.
Dal 1997 insegna Direzione d’Orchestra al Conservatorio di Milano. Come le sembrano i ragazzi oggi? Il terreno è fertile?
Sì, ma bisognerebbe intervenire sui programmi scolastici: l’età media degli ascoltatori, in particolare della musica classica, si è alzata parecchio nel nostro Paese; occorre studiare per appassionarsi alle cose, molta gente non conosce la musica e pensa che la classica sia un retaggio noioso del passato, giudica per sentito dire. Questo calo generale d’istruzione, che riguarda anche i politici, è un problema italiano purtroppo. Altrove non è così. Non ci sono questioni di merito, semmai problemi più semplicemente di conoscenza. Il terreno fertile ci sarebbe anche nel nostro Paese, ma bisogna coltivarlo.
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