Carlo Chatrian: «Stavo trapanando un muro quando mi offrirono la direzione del Festival di Locarno, quel giorno per me fu la svolta»

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di
Gabriele Ferraris

Il neodirettore del Museo del Cinema: «Me lo ripeto sempre, non faccio il medico e per un mio sbaglio non muore nessuno. Il cinema non salva la vita, però aiuta a vivere meglio»

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Carlo Chatrian, valdostano, neodirettore del Museo del Cinema, ha 53 anni; e di anni ne sono passati trenta da quando, giovane collaboratore dello stesso Museo, muoveva i primi passi di una carriera che lo avrebbe portato a dirigere due dei top festival europei, Locarno e Berlino.

E trent’anni dopo sei tornato al Museo da trionfatore…
«No, questa narrativa non mi appartiene, non avevo un disegno preciso per il mio percorso. Quando studiavo qui a Palazzo Nuovo, il cinema non era il mio orizzonte di vita: di sicuro mi piaceva, mi piacevano i corsi del professor Rondolino, mi sono laureato con Bertetto conquistato dal suo corso su Fritz Lang. Ma se devo raccontare un colpo di fulmine che ho avuto all’università è stato piuttosto un corso di teatro che mi aveva affascinato. Poi, certo, con il Museo ho iniziato a collaborare trent’anni fa per una rassegna. Ma ripeto, non avevo un disegno preciso: io cerco di focalizzarmi volta per volta sulle cose che sto facendo nel momento in cui le sto facendo, senza pensare “dopo devo andare di qua, devo andare di là…”. Pensa che quand’ero fidanzato con mia moglie, sua nonna le chiedeva sempre “ma quel tuo fidanzato, che mestiere fa?”. E aveva ragione: io all’epoca facevo tanti lavori, facevo un po’ il giornalista, tenevo dei corsi di cinema nelle scuole, ogni tanto lavoravo nei festival, mi davano due lire, insomma riuscivo a cavarmela, e questo un po’ alla volta è cresciuto, ma non ho mai pensato “adesso campo di cinema”, se non quando avevo ormai trent’anni».




















































È stato allora che hai capito di avere svoltato?
«La svolta, la grande sorpresa, è arrivata nel 2012: un giorno — stavo trapanando un muro, e non sono portato per la manualità quindi è veramente una cosa memorabile — ricevo la telefonata del presidente del Festival di Locarno che mi chiede di incontrarci. Con Locarno già collaboravo, ma all’epoca dirigevo la Film Commission della Val d’Aosta e pensavo che quello potesse essere un lavoro che… A farla breve: vado a Locarno e mi aspettavo che mi proponessero delle attività annuali, e invece mi offrono la direzione del Festival, e ovviamente uno non è che dice di no, però mi sono domandato per mesi “perché scelgono me, non ho diretto nessun festival, tanto più a quel livello, e sarò capace di farlo?”. Ecco, questa idea di mettermi alla prova e domandarmi se sarò capace, me la porto ancora dietro: per cui adesso mi domando se sono capace di fare il direttore di un’istituzione complessa come il Museo. Per adesso la cosa mi piace molto, poi vedremo».

La tua prima«mission impossible» come direttore del Museo è stata ricucire i rapporti con la Cinémathèque Française dopo il pasticciaccio della mostra di Cameron e le conseguenti tribolazioni giudiziarie…
«Non era così impossibile, e non va ascritta solo a merito mio, ma anche alle altre persone che lavorano al Museo. Però sì, avevo fatto presente già all’atto della mia candidatura che semmai mi avessero nominato la mia prima azione sarebbe stata risolvere la querelle, chiamiamola così…».

Più che querelle, direi querela…
«Beh, l’aspetto giudiziario era importante, ma si andava ben oltre: nell’ambiente cinematografico internazionale nessuno capiva, due istituzioni si fanno causa è una cosa fuori dalla logica. Con il direttore della Cinémathèque, Frédéric Bonnaud, ci conosciamo da anni, io so come lavora lui e lui sa come lavoro io, e questo ha aiutato. Anche dal loro punto di vista era assurda quella causa, era assurdo non ci fosse più un dialogo fra due istituzioni così importanti, che sono cresciute insieme. Abbiamo risolto in tempi molto rapidi. Così ospiteremo la famosa mostra di Cameron, e avere James Cameron che si sveglia alle 6 di mattina per annunciare in diretta che verrà qui, vuol dire che ci tiene a questo luogo, e alla mostra».

Dei tuoi primi passi come direttore si è già molto detto e scritto. Parliamo allora dell’uomo Chatrian, del quale poco si sa. Tu hai moglie e figli, giusto?
«Sì, tre figli già grandicelli, e nessuno di loro si occupa di cinema, fanno altri percorsi; e ho una moglie che non ama troppo le paillettes e le luci. Nel senso che le piace venire al cinema, quello sì, ma quando c’è una serata di gala lei mi dice “anche no, caro”».

E riesci a conciliare lavoro e famiglia?
«Il mio è un lavoro che assorbe, e quando il lavoro fa tutt’uno con la passione è difficile mettere delle barriere, uno è sempre con la mente impegnata… In più c’è la distanza fisica, una delle ragioni per cui si è chiuso il mio percorso a Berlino. Non l’unica, ma una delle ragioni: a livello professionale l’esperienza di Berlino mi ha dato tantissimo, mi ha arricchito, ho imparato molto, mi è piaciuta. A livello personale era faticoso».

Adesso la famiglia è a Torino?
«No, abitiamo ad Aosta. Però la distanza con Torino è poca. E d’altronde sono passati cinque anni rispetto a Berlino: cinque anni fa il figlio più grande aveva 18 anni e la più piccola 13, era diverso. Quando ho accettato l’incarico a Berlino avevamo progettato, con mia moglie, che dopo un primo anno lei e la piccola mi raggiungessero a Berlino. Poi è scoppiato il Covid e tutti i nostri bei progetti sono saltati. Certo, l’aspetto familiare è più compatibile con un lavoro come questo al Museo, che sì richiede dei viaggi, ma sicuramente meno che la direzione di un festival: lì devi viaggiare molto di più, per vedere gli altri festival, scovare i film migliori… Insomma, l’opzione di Torino ci è subito piaciuta: c’erano altre opportunità, magari più remunerative, ma non abbiamo avuto esitazioni».

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Domani al Cinema Massimo ci sarete tu, il presidente Ghigo, il capi area del Museo, e insieme presenterete i programmi e le attività del 2025. Una «presentazione collettiva» che mi pare una novità interessante…
«Penso che funzionasse così anche prima: magari non c’era la presentazione con questa modalità comunicativa, ma il nostro è un lavoro di squadra, non sono io che decido da solo. A me non interessa dire “il mio museo”, perché so che non è mio. Il museo è di tutti quelli che lo frequentano. Ed è il risultato delle visioni di tante persone. Poi, ovviamente, alla fine c’è uno che decide, perché se si è in due finisce che si litiga. Però ci vuole la squadra, servono tante competenze diverse: il Museo si occupa del restauro delle pellicole, della conservazione dei manifesti, dell’attività espositiva, delle proiezioni al Massimo, oltre che della parte spettacolare legata agli ospiti e quant’altro. La squadra c’è, mi sembra motivata e con buone competenze. Quindi mi è sembrato naturale presentarci come una squadra, non come una persona sola al comando».

Ok, ma timone ci sei tu: non senti il peso della responsabilità, l’ansia da prestazione, il timore di sbagliare?
«Beh, non è che non ci dorma la notte. Lo ripeto sempre anche a me stesso: io non faccio il medico, un mio sbaglio non è lo sbaglio di un medico, non muore nessuno. Il cinema non salva la vita. Però aiuta a vivere meglio».

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20 gennaio 2025 ( modifica il 20 gennaio 2025 | 10:50)

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