Christine Lagarde spiega come indirizzare i risparmi liquidi verso l’economia reale, anche con prodotti standardizzati e trasparenti. Nel frattempo, in Italia impazzano gli opachi e costosi certificates, che ingrassano le banche.
Intervenendo allo European Banking Congress, la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha nuovamente perorato la causa dell’unione del mercato dei capitali, con un intervento dal titolo “Convogliare il risparmio verso gli investimenti e l’innovazione in Europa“. Come saprete se mi leggete, io sono molto favorevole a questa missione purché non si tratti di iniziative d’imperio, in una sorta di euro-corralito dei risparmi. E, soprattutto, tenendo presente che siamo in un periodo storico in cui c’è un forte desiderio a trattenere i capitali entro i confini nazionali.
A parte ciò, Lagarde analizza il “mancato collegamento tra risparmiatori e innovatori” analizzando tre passaggi nel relativo canale: ingresso, diffusione e uscita dei risparmi. Mentre rimando al testo del discorso chi desiderasse approfondire le parti relative a diffusione e uscita dei risparmi, concentriamoci sull’ingresso dei medesimi nel sistema produttivo. Lagarde evidenzia come l’elevata propensione al risparmio dei cittadini europei non si dispieghi in modo virtuoso e produttivo:
I cittadini europei destinano al risparmio una quota elevata del proprio reddito, pari nel 2023 a circa il 13%, a fronte dell’8% circa negli Stati Uniti.
In genere però prediligono prodotti di risparmio liquidi e a basso rischio. In Europa circa 11.500 miliardi di euro sono detenuti sotto forma di contanti e depositi, ossia un terzo delle attività finanziarie totali delle famiglie. Lo stesso dato per gli Stati Uniti è pari ad appena un decimo.
Le conseguenze principali per la nostra economia sono duplici.
In primo luogo, la ricchezza delle famiglie europee è molto minore di quanto potrebbe essere. Dal 2009 la ricchezza delle famiglie statunitensi è cresciuta di circa il triplo rispetto a quella delle famiglie dell’UE.
In secondo luogo, il flusso di risparmio verso i mercati dei capitali è molto inferiore di quanto potrebbe essere.
Segue analogia piuttosto meccanica ma sempre suggestiva:
Secondo l’analisi della BCE, se le famiglie dell’UE dovessero allineare il proprio rapporto depositi/attività finanziarie a quello delle famiglie statunitensi, potrebbero essere reindirizzati fino a 8.000 miliardi di euro verso investimenti a lungo termine basati sul mercato, pari a un flusso di circa 350 miliardi all’anno.
Risparmiare costa
Che fare, quindi, per agevolare l’ingresso dei risparmi nel sistema produttivo europeo? Secondo Lagarde, partire dal presupposto che gli investimenti al dettaglio in Europa sono “frammentati, opachi e costosi”.
In molti paesi effettuare investimenti è complesso e comporta l’intermediazione di consulenti finanziari nei quali non sempre si ha fiducia. Il 45% dei consumatori dichiara di non avere la certezza che la consulenza ricevuta consideri principalmente i loro interessi.
E se le famiglie investono, spesso non lo fanno alle condizioni migliori. Gli investitori al dettaglio nei fondi comuni europei, ad esempio, pagano quasi il 60% in più di commissioni rispetto alle loro controparti statunitensi.
Molti europei finiscono quindi per investire automaticamente nel risparmio garantito.
I prodotti di risparmio retail in Europa sono costosi. Aggiungo io che in Italia lo sono ancora di più, anche grazie alla ridotta cultura finanziaria dei risparmiatori, che vengono sballottati dalle virtù taumaturgiche del Btp al moto di sdegno per la mancata o risibile remunerazione di meri strumenti di pagamento come sono i conti correnti, fino a essere spinti da campagne di stampa spesso forsennate (e interessate) a investire nell’alternativo illiquido, cioè private equity e private debt, quando non addirittura nel venture capital. Questi inviti vengono rivolti soprattutto a gente che, anche quando facoltosa, non distingue il classico Btp dall’altrettanto classico paracarro.
Lagarde propone la “competizione” tra prodotti, che però rischia di essere una fallacia, se alla base persiste una crassa ignoranza degli strumenti. Avere strumenti nocivi che costano un po’ meno non è esattamente virtuoso. Come che sia, date le premesse, anche Lagarde è impegnata nella lotta alla liquidità. Per perseguire la quale servono prodotti accessibili, trasparenti e a costi sostenibili. Ecco il suggerimento:
A mio avviso, uno “standard di risparmio europeo”, ossia un insieme standardizzato di prodotti di risparmio a livello di UE, è il modo migliore per conseguire tali obiettivi.
Tutto molto condivisibile ma pensate alle resistenze nazionali a questa standardizzazione, che peraltro rischia di essere l’ennesimo libro delle regole calato dall’alto, oltre a scontrarsi con interessi e appetiti delle industrie nazionali del risparmio gestito e delle reti di distribuzione.
Quindi la strada resta lunga, molto lunga. Poi, mi capita di leggere l’ultimo rapporto di Banca d’Italia sulla stabilità finanziaria e, riguardo alle tendenze di impiego del risparmio, scopro che:
Nel corso dell’anno si è rilevata un’ulteriore significativa crescita dei collocamenti di certificates, acquistati prevalentemente dalle famiglie. Si tratta di strumenti di difficile valutazione che possono esporre i detentori a perdite consistenti in caso di scenari avversi. La Banca d’Italia sta segnalando da tempo tale fenomeno e continua a monitorarne l’evoluzione.
E ancora:
Tra i titoli di debito emessi dalle banche, stabili nel periodo, rilevano soprattutto i certificates. La presenza di questi strumenti, complessi e relativamente rischiosi, è cresciuta in modo significativo nel portafoglio delle famiglie a partire dal 2022, arrivando a rappresentare a giugno del 2024 quasi il 12 per cento dei titoli di debito detenuti. Sulla base dell’ICF, circa il 10 per cento dei nuclei, per lo più in buone condizioni reddituali e finanziarie, investe in certificates.
Certificates People
Ah, il certificate! Il tiranno delle esistenze dei poveri bancari che “devono fare il budget”, lo strumento per permettere alle banche di contrastare eventuali cali del margine d’interesse e produrre grasso che cola a livello commissionale. Strumenti complessi e strutturati, fatti di derivati, dal pricing opaco come poche altre cose al mondo perché per prezzarli il risparmiatore dovrebbe essere un rocket scientist e, se riuscisse a farlo compiutamente, metterebbe mano alla fondina o chiamerebbe direttamente i carabinieri.
Collocati con commissioni upfront di parecchi punti percentuali, che li fanno svalutare pesantemente nel preciso momento in cui giungono a quotazione ufficiale. Questi strumenti sono eccellenti, per le banche: non solo gonfiano di commissioni il conto economico, ma permettono anche di raccogliere fondi a costo stracciato. Altro che remunerare il conto corrente.
I derivati hanno un insopprimibile fascino, agli occhi dei non addetti ai lavori: promettono di sopprimere i rischi e i tradeoff. Ecco, guardi questo certificato: se il mercato azionario cresce, lei guadagna; se scende, lei non perde. Ma non è meraviglioso, tutto ciò? E poi c’è questa affascinante terminologia esoterica: i certificati con “barriera”, con “memoria”, quelli rialzisti, quelli ribassisti, quelli che non hanno ancora deciso ma vi faranno sapere tempestivamente, quelli che non si attaccano al lavoro del vostro dentista, quelli per la forfora e l’alitosi. Vista la cronica allergia degli italiani al concetto di tradeoff (vogliamo burro, cannoni e cannoli), questa è un’attrazione fatale predestinata.
C’è un certificate per ogni esigenza e sono tutti miracolosi, anche se venduti (chissà perché) con l’avvertenza che possono nuocere gravemente alla vostra salute finanziaria. Scritta in piccolo e pronunciata da bancari che in quel fatale momento vengono colti da improvviso abbassamento della voce. Però è interessante quanto rilevato da Banca d’Italia: le banche, fiutando l’indebolimento del margine d’interesse, si sono subito messe all’opera per piazzare prodotti ad alta marginalità (per loro), e i risparmiatori sono accorsi a brucare.
Attendiamo quindi con fiducia, seguendo Lagarde, di giungere alla ottimale allocazione dei risparmi verso l’economia produttiva della Ue. E attendiamo anche la standardizzazione senza frontiere di prodotti di risparmio resi trasparenti e comprensibili. Parafrasando il poeta contemporaneo Eros Ramazzotti: una terra promessa, un mondo diverso dove crescere i nostri risparmi.
Sempre che quella ingenua aspirazione non venga frustrata dal realismo di banche e società di gestione, che ci richiamerebbero al dovere di preservare le nostre specificità nazionali e non permettere che i nostri risparmi vengano rapiti e portati oltre confine, dopo averli privati della grande opportunità di prodotti come i certificates, dove noi italiani siamo all’avanguardia, come nella fusione nucleare (cit.). No a questi subdoli tentativi di smantellare la nostra alta tecnica ingegneristica finanziaria. No pasaran, ve lo certifichiamo.
P.S. A proposito di educazione finanziaria o più banalmente di informazione, chissà se e quando riusciremo a leggere su qualche nostro grande quotidiano, magari negli inserti dedicati a economia e risparmio, una bella analisi sui certificates. Non trattenete il respiro, nell’attesa.
P.P.S. Un lettore mi chiede se i certificates non siano attrattivi per la clientela “perché sono tra i pochi strumenti che permettono il recupero delle minusvalenze fiscali da titoli (azionari e obbligazionari) che scadono nel corso degli anni”. Intanto, non sono tra i pochi strumenti. Basta avere in portafoglio obbligazioni sotto la pari da portare a scadenza, singole azioni, un Etc sull’oro oppure un ETN su indici azionari (ce n’è uno sullo S&P 500, ad esempio, ma non solo), e si possono usare per la compensazione a costi ben inferiori. Ma mi rendo conto che questo è uno dei selling point degli spacciatori di certificati. E continuo a non stupirmi.
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