In tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale, con la conseguenza che non è possibile tenere conto dei costi non contabilizzati, a meno che non si sia in presenza, quantomeno, di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza.
Tale principio, già più volte enunciato dalla giurisprudenza penale, viene ripreso dalla sentenza n. 2383 depositata ieri dalla Corte di Cassazione (si veda in senso conforme, tra le altre, Cass. n. 40412/2019).
Nel caso in esame, il rappresentante legale e l’amministratore di fatto di due srl erano stati condannati per il reato di dichiarazione infedele (art. 4 del DLgs. 74/2000) per avere indicato nelle dichiarazioni annuali di tali società elementi attivi per ammontare inferiore a quello effettivo.
La contestazione ipotizzava l’omessa documentazione, registrazione e contabilizzazione degli incassi relativi al servizio di ristorazione reso alla clientela, così come erano stati ricostruiti dagli accertatori in base alla contabilità finanziaria in nero parallela a quella ufficiale; contabilità tenuta con sistemi informatici, riepilogata in appositi prospetti mensili e annuali e rinvenuta nel corso della perquisizione di uno dei locali per la ristorazione.
Secondo la Cassazione, il giudice penale deve accertare e determinare l’ammontare delle imposte evase – ai fini del superamento delle soglie di punibilità – attraverso una verifica che deve privilegiare il dato fattuale reale, rispetto ai criteri formali dell’ordinamento fiscale, con la conseguenza che occorre valutare i costi non contabilizzati emergenti dalla documentazione comunque acquisita al processo (cfr. Cass. n. 53907/2016).
Tuttavia, quando il reddito imponibile viene ricostruito incrociando la contabilità di impresa con quella “in nero”, è preciso onere del contribuente indicare gli ulteriori costi non contabilizzati effettivamente sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi a loro volta non contabilizzati.
Non sussiste, infatti, secondo la giurisprudenza, alcuna automatica correlazione tra ricavi non contabilizzati ed eventuali costi anch’essi ipoteticamente non contabilizzati. La mancata contabilizzazione dei ricavi, insomma, non necessariamente comporta che i costi sostenuti per ottenerli non siano stati a loro volta annotati nei registri. Le spese e gli altri componenti negativi, infatti, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza solo se certi o comunque determinabili in modo obiettivo come previsto dall’art. 109 comma 1 del TUIR, e non possono essere puramente e semplicemente presunti.
Dunque, ai fini della ricostruzione dell’imposta evasa ai sensi dell’art. 1 comma 1 lett. f) del DLgs. 74/2000, è necessario attingere alle regole stabilite dalla normativa fiscale, ma con le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale. Perciò si può affermare che i costi concorrono, sì, alla determinazione dell’imponibile, ma purché ne sussista la certezza o quantomeno un ragionevole dubbio circa la loro esistenza. Non è, in tale prospettiva, legittimo nemmeno in sede penale presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza di allegazioni fattuali che rendano quantomeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza.
Il superamento della soglia di punibilità è un elemento costitutivo della fattispecie di dichiarazione infedele e perciò, ove sussista il ragionevole dubbio circa il superamento di tale soglia, il giudice deve affermare l’insussistenza del fatto di reato, con la precisazione che si può parlare di dubbio ragionevole laddove sia fondato su fatti verificabili e non assumere congetture ipotesi o presunzioni.
Nel caso di specie, la condanna viene annullata con rinvio in quanto la sentenza di merito non aveva preso in considerazione l’esistenza nella contabilità “in nero” anche dei costi della gestione delle attività; costi dei quali, peraltro, la stessa Agenzia delle Entrate aveva tenuto conto ai fini del separato esercizio della pretesa fiscale.
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