Dopo quindici anni di Orbán, l’economia ungherese è ostaggio di inflazione e debito

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A Bonyhad, un paese di dodicimila persone non lontano dai confini con Serbia e Croazia, non c’è stata una fila sgomitante per recarsi alle urne: il freddo, l’assenza di un candidato unitario per l’opposizione e la certezza quasi matematica che la vittoria sarebbe andata alla candidata di Fidesz, Krisztina Csibi, hanno contribuito a tenere l’affluenza poco sopra il trenta per cento.

Si votava per le elezioni suppletive, le prime di questa legislatura iniziata nel 2022, necessarie per sostituire Arpad Potapi, il parlamentare ed ex sindaco di Bonyhad morto a ottobre per un infarto. Nonostante il seggio sicuro per il partito del premier Viktor Orbán, c’era curiosità anche perché questo sarebbe stato il primo test dopo la sfida lanciata da Peter Magyar la scorsa estate, ma il partito del ribelle, tale o presunto, non si è presentato, e il ruolo di principale avversario di Fidesz è andato all’estrema destra di Mi Hazánk, che è passata dal 7,5 per cento di due anni fa al diciannove per cento.

Dopo il semestre di presidenza ungherese dell’Unione Europea, Viktor Orbán è entrato nel quindicesimo anno di supremazia assoluta a Budapest, con la supermaggioranza sempre garantita in Parlamento dal voto del 2010 e un’opposizione inconsistente e mai realmente in grado di insidiarne il potere.

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Esiste un segreto in grado di spiegare, al di là delle manovre autoritarie, la costante popolarità del premier e del suo partito, specialmente in un momento in cui numerosi governi in carica si ritrovano a dover affrontare il malcontento, talvolta generato a tavolino dall’influenza dei social media, come nel caso della vicina Romania? Alcuni sondaggi oggi indicherebbero un vantaggio per Tisza, il partito di Magyar entrato nel 2024 nel Ppe, ma si tratta degli stessi che avevano pronosticato una vittoria per Peter Marki-Zay tre anni fa.

Budapest è entrata nell’Unione Europea nel 2004 assieme a un gruppo piuttosto omogeneo di paesi che, per localizzazione geografica e storia recente, possono essere messi a confronto. Si tratta dei quattro di Visegrad, il gruppo che, oltre all’Ungheria, include Polonia, Cechia e Slovacchia. Tutti questi paesi hanno avuto a che fare con governi di stampo populista o autoritario, ma in tre casi su quattro si è registrata anche una forma di alternanza politica, che ha visto andare al governo in Polonia il popolare Donald Tusk spodestando il più stabile alleato di Orbán in Europa. Il premier ungherese può ora contare sul reciproco sostegno con l’alleanza filorussa fra socialdemocratici ed estrema destra guidata da Robert Fico in Slovacchia.

Quando Viktor Orbán è salito al potere nel 2010 per la seconda volta, dopo aver già governato fra il 1998 e il 2002, l’Ungheria è riuscita a mantenere una crescita a fasi alterne, bloccata dalla pandemia e ancora successivamente dall’inflazione. Ne è risultato che l’Ungheria è rimasta la terza economia della regione in termini assoluti, mentre il Prodotto interno lordo pro capite a parità di potere d’acquisto la vede molto lontana sia dalla Repubblica Ceca, che dalla Polonia, la cui risposta alla pandemia è stata la più vigorosa, e non è lontana dall’essere scavalcata anche dalla Slovacchia.

A comprimere l’economia ungherese è principalmente il tasso di inflazione, al 3,9 per cento lo scorso novembre, ma che aveva raggiunto un picco del ventisei per cento a gennaio 2023. In confronto, Slovacchia, Polonia e Cechia hanno rispettivamente chiuso il 2024 al 3,1, 3,9 e 3,1 e nessuna di loro è andata oltre il picco del diciannove per cento nell’inverno fra il 2022 e il 2023. La risposta della Banca Centrale Ungherese era stata l’aumento dei tassi di interesse fino al tredici per cento fra il settembre del 2022 e il settembre 2023, mentre l’ultimo taglio, lo scorso autunno, ha portato il tasso di interesse al 6,5 per cento. La Repubblica Ceca, in confronto, è oggi al 4,25 per cento, la Polonia al 5,75 per cento, mentre la Slovacchia, che adotta l’Euro, è al 3,4 per cento.

In un articolo di quasi due anni fa, il Comitato Helsinki per l’Ungheria, una delle organizzazioni non governative più attive nel paese (vincitrice del Premio Sakharov per la libertà nel 2019), aveva individuato le principali cause dell’inflazione magiara. L’elemento più ovvio è la forte dipendenza di Budapest dalla Russia per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico: ancora nel 2023, l’Ungheria importava oltre l’ottanta per cento del gas naturale dalla Russia, quantità di poco ridotta lo scorso anno.

Un altro fattore determinante per l’aumento dei prezzi, in particolare per i beni importati, è stata la crisi della valuta ungherese: nell’aprile del 2010, alla salita al potere di Orbán, un euro veniva scambiato con duecentosessantatré fiorini, il valore è costantemente deteriorato fino ad aumentare proprio durante i mesi del picco di inflazione. Oggi, per acquistare un euro servono 411 fiorini, risultato di una svalutazione del cinquantacinque per cento.

Contemporaneamente, hanno contribuito anche un’annata, il 2022, particolarmente avara per l’agricoltura locale, e i contributi a pioggia versati nel corso della pandemia, con l’immissione di quasi tre miliardi di euro da parte del governo, il che ha comportato un aumento indiscriminato dei consumi senza una reale crescita economica.

La cosiddetta Orbanomics, caratterizzata da un forte intervento statale nell’economia del paese, ha finito per far lievitare il debito pubblico ungherese dopo lo scorso decennio in cui il governo era riuscito a diminuirne la consistenza. Tuttavia, una delle ragioni ipotizzate all’epoca dal Comitato Helsinki era anche il mancato rispetto dello stato di diritto a Budapest come causa della sfiducia dei mercati nei confronti dell’Ungheria, in particolare il timore dell’impossibilità di poter concorrere lealmente con le imprese più vicine al governo.

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Questi timori sono divenuti realtà ora che si è concretizzata la minaccia del taglio dei finanziamenti da parte dell’Unione Europea in assenza di miglioramenti per quanto riguarda lo stato di diritto. Il taglio di un miliardo di euro da parte di Bruxelles per la mancanza di trasparenza nel finanziamento dei partiti politici equivale a circa il sei per cento della crescita prevista per quest’anno.

Il peso di questi numeri diventa ancora più alto se si pensa alle condizioni di vita degli ungheresi: oggi la pensione media è di circa cinquecento euro al mese, il peggior tasso di crescita fra i paesi di Visegrad, a fronte di una crescita sostenuta del salario in rapporto all’inflazione, motivo per cui l’aumento dei prezzi si è fatto sentire particolarmente sulle fasce più anziane e vulnerabili.

Il tutto, al termine di un semestre durante il quale la presidenza ungherese dell’Ue si è contraddistinta per gli slogan in salsa trumpiana e per il lancio di misure dalla dubbia efficacia: la politica favorevole alla natalità, in Ungheria, ha subito una pesante battuta d’arresto con la crisi economica che ha fatto venire a galla tutte le incertezze delle famiglie ungheresi proprio mentre il tasso di emigrazione ha toccato il suo picco storico di trentacinquemila espatri all’anno; sul piano internazionale l’allargamento nei Balcani promosso da Orbán sembra indirizzato solamente a portare nuovi partner vicini a Budapest, come ad esempio la Serbia governata da un altro autocrate con simpatie filorusse, Aleksandar Vucic.

A fronte di tutto questo, verrebbe da chiedersi perché Viktor Orbán sia ancora in sella dopo quindici anni: la debolezza e la divisione delle opposizioni magiare sono la linfa vitale per il premier in un sistema per lo più maggioritario. A questo si aggiunge il pesante divario fra le (poche) aree urbane dove la leadership di Orbán è messa in discussione e le zone rurali del paese dove Fidesz ha fortificato il consenso, ha buon gioco sull’apatia della popolazione e dove il dibattito sullo stato di diritto e sui rapporti con l’Europa lascia spazio a questioni più quotidiane come l’aumento dei prezzi. Ma anche queste difficoltà vengono raramente esposte sui media a causa del vasto controllo dell’agenzia filogovernativa Kezma e dell’orientamento delle testate giornalistiche locali.

Viktor Orbán è atteso da un anno indubbiamente complesso che lo costringerà a sperare in assist altrui, ad esempio un rinsaldamento dei rapporti con gli Stati Uniti ora guidati da Donald Trump, o un alleggerimento delle sanzioni internazionali nei confronti della Russia, che permetterebbero margini di manovra più ampi, in particolar modo per quanto riguarda il settore energetico. Allo stesso tempo, e quasi in contemporanea con la campagna elettorale, è atteso l’esito della candidatura di Budapest per ospitare le Olimpiadi del 2036, e se un tale obiettivo è anagraficamente alla portata di Viktor Orbán nel ruolo di premier (avrebbe settantatré anni), le elezioni del prossimo anno al momento non sembrano preannunciare sorprese e cambi d’inquilino a Palazzo Karmelita.



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