A soli quattro giorni dall’insediamento, ieri Trump è stato ospite virtuale del forum di Davos. Dopo un primo intervento introduttivo, il neopresidente ha risposto alle domande di un panel che includeva gli amministratori delegati di Blackrock, Bank of America, Santander e Total. Il punto di partenza è stato ancora “l’inflazione di Biden” causata, nell’analisi di Trump, da deficit eccessivo e sprechi pubblici a partire dalla transizione verde. Archiviata questa fase, l’America di Trump vuole tornare a essere una potenza manifatturiera e questo si traduce in un programma economico di ampio respiro. Da un lato, l’America offre deregolamentazione, aliquote fiscali ai minimi, abbandono di qualsiasi vincolo green con i suoi costi, prezzi energetici ai minimi e massima libertà ai consumatori “liberi di scegliere la macchina che vogliono”. Dall’altro, Trump si dice pronto a colpire con dazi.
Nel corso dell’intervento non sono stati fatti numeri sui dazi e il presidente ha avuto modo di svelare al pubblico una telefonata “cordiale” con il presidente cinese Xi Jinping di venerdì scorso. Questo è bastato per far concludere ai mercati che siamo in una fase in cui si cercherà di chiudere accordi concordati senza innescare guerre commerciali. Trump poi ha ripetuto l’intenzione di combattere l’immigrazione illegale e ha ribadito a più riprese che in America si potrà produrre energia in qualunque modo le imprese vogliano, incluso il carbone.
C’è stato spazio anche per la politica internazionale. Il primo punto è stato un invito all’Opec ad aumentare la produzione di idrocarburi e abbassare il prezzo del petrolio; questo sarebbe necessario per far finire la guerra in Ucraina. Si intende, evidentemente, soffocare l’economia russa tagliando le sue entrate economiche. Vedremo quale sarà la risposta dell’Arabia Saudita, perché con i prezzi attuali il Paese mediorientale non riesce a finanziare il suo budget. Tagliati i prezzi del petrolio, Trump chiederà alla Fed di abbassare i tassi. Gli ultimi due punti riguardano l’Europa. Agli alleati europei si chiede innanzitutto di portare il budget della difesa al 5% del Pil. Il presidente americano mette nel mirino non tanto gli europei o gli Stati del Vecchio continente, ma la “Unione Europea” rappresentata come una burocrazia che impone regolamentazioni insostenibili alle imprese. È, nei fatti, la stessa polemica che le imprese europee e molti Stati membri rivolgono a Bruxelles. Ampio spazio è stato dedicato alla guerra in Ucraina. Il conflitto deve terminare soprattutto per il suo costo umano che, secondo l’inquilino della Casa Bianca, è di molte volte superiore a quanto sia pubblicizzato.
Il nuovo corso dell’America ha due riflessi. Il primo è interno agli Stati Uniti, perché la fine dell’immigrazione, il rimpatrio della produzione e i dazi sono inflattivi. La fine dell’immigrazione riduce l’offerta di lavoro, il rimpatrio sostituisce produzioni a basso costo con altre sicuramente più costose e anche i tassi bassi rischiano di alimentare una bolla azionaria che ha effetti sui prezzi di molti settori tra cui, sicuramente, quello immobiliare. Non è un caso che mentre gli appelli all’Opec per abbassare i prezzi abbiano subito determinato un calo del petrolio, quelli alla Fed per abbassare i tassi non abbiano avuto effetti sul rendimento del decennale americano. Se lo scenario è inflattivo gli investitori vogliono rendimenti più alti. La fine della transizione energetica è una condizione necessaria per abbassare i prezzi, ma non è sufficiente. Il rischio per Trump è che in questo riposizionamento si perda il controllo dell’inflazione.
Il secondo riflesso è esterno. Il nuovo corso americano impone ai partner ristrutturazioni profonde del modello economico. È vero per la Cina e anche per l’Europa. La Cina ha poche alternative per ridurre il suo surplus commerciale con l’America; può volontariamente tagliare la produzione, può aumentare gli investimenti domestici aumentando ulteriormente il debito oppure può, e sarebbe la soluzione migliore, riequilibrare l’economia verso i consumi, ma questo richiede anni e una distribuzione del reddito e dei profitti profondamente diversa da quella attuale. Questo è vero in parte anche per l’Europa, con una differenza sostanziale: il Vecchio continente deve ristrutturare l’economia e competere con un concorrente che ha deciso di rendere la vita facilissima alle imprese dentro i binari della transizione green.
Nel discorso di ieri si sono citati tre prodotti che l’Europa dovrebbe comprare dall’America per ridurre il suo surplus commerciale: petrolio e gas americani, macchine americane e prodotti agricoli americani. Per i primi due la premessa è che anche in Europa finisca una certa transizione energetica. Se accadesse, l’Europa si accoderebbe da buon ultima, dopo aver buttato via anni e centinaia di miliardi di euro e dopo aver ammazzato alcuni dei suoi comparti più floridi, a partire da quello automotive, devastato dalle pulsioni verdi di Bruxelles e da regole senza riguardo per i vantaggi competitivi delle imprese europee.
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