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Ricordate l’emergenza rifiuti? Autonomia differenziata e disunità d’Italia: le occasioni perse di un Paese alla deriva #adessonews

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Nel 1990 esce L’inferno. Profondo Sud, male oscuro di Giorgio Bocca. Quindici anni dopo l’autore ritorna a Sud con Napoli siamo noi. Il dramma di una città nell’indifferenza dell’Italia (2006).

Nel primo libro Bocca non usò mezze misure per scagliarsi contro le regioni meridionali, a suo dire, infestate dalle mafie. La divaricazione dei risultati elettorali tra Nord e Sud – erano gli anni della “questione settentrionale” e del leghismo secessionista – spinse il giornalista de L’Espresso a ricondurre le cause alla classe politica trasformista e corrotta, con radici ben solide nella società meridionale, incapace di comprendere il senso della modernità, ma pronta a concedere tutto al proprio «pessimo elettorato» in cambio di sostegno.

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Le allusioni storiche, soprattutto nel titolo del libro, rinviano al famoso adagio Seicentesco, ripreso anche da Benedetto Croce nel 1923, in cui il Mezzogiorno viene raffigurato come un “paradiso”, ma “popolato da diavoli”.

L’inchiesta di Bocca era dunque pregna di descrizioni scontate, di cliché vecchi di secoli, tutti stereotipi per sostenere la sua tesi: la tradizionale classe politica, delegittimata al Nord, al Sud invece aveva ancora acqua in cui nuotare e riprodurre il proprio consenso.

È un esercizio retorico consolidato quando si parla di Meridione, quello di utilizzare un’interpretazione binaria e zeppa di luoghi comuni. Da una parte, gli onesti, i buoni, i capaci, coloro che sono proiettati verso la modernità; dall’altra, le nequizie, la cattiveria, l’inettitudine: nella dialettica i primi sono i soli capaci di traghettare i “diavoli” verso il “paradiso”. Difatti Bocca auspicava che da Nord giungesse a Sud una nuova resistenza, che il secessionismo nordista alleato di una politica del rinascimento meridionale scardinasse la corruzione, la criminalità e le condotte “putrescenti”; anche se ne intravedeva un rischio: come vasi comunicanti, il Mezzogiorno avrebbe potuto infettare il resto dello “stivale”, a causa dell’illegalità e dell’immoralità.

Nel 2006, nel secondo libro, la lettura di Bocca si faceva ancor più sconfortata, perché il rischio dell’infezione e dell’illegalità gli sembrava realizzarsi risalendo la penisola; e il degrado meridionale, anziché eccezione, gli pareva una mostruosa raffigurazione di una linea di tendenza ormai generalizzata nel panorama nazionale.

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Erano gli anni delle rivolte contri i rifiuti, contro la gestione commissariale per l’apertura di nuove discariche e dell’inceneritore regionale. Parecchie decine di migliaia di persone in tempi e luoghi diversi, si sollevarono puntellando di comitati popolari la geografia politica della Campania. I comitati spontanei di decine e decine di paesi venivano tratteggiati come contrari all’“interesse generale”, poiché non volevano i rifiuti di Napoli e della provincia nei loro comuni. La stampa e l’opinione pubblica richiamavano l’attenzione sul “senso di responsabilità”, sul “senso dello Stato”, sul “rispetto delle istituzioni” da una parte; e dall’altra, additavano i comitati popolari come modelli di anti-modernità, arretratezza culturale, localismo e passatismo.

A dire il vero, quei comitati erano esperti sull’argomento e avevano un alto senso civico: conoscevano la filiera dei rifiuti, da dove provenivano quegli scarti indifferenziati; rivendicavano il diritto al controllo del territorio e di ciò che – in forma legale o illegale – veniva sversato in esso, ormai da decenni; conoscevano l’oscuro intrico di connivenze e relazioni con interessi speculativi e criminali che avevano scaricato nei loro territori tonnellate e tonnellate di rifiuti industriali del Nord. E di tutto ciò i comitati sapevano e, in quegli anni, dissero basta! Basta con la devastazione del futuro, basta con la connivenza e il silenzio con la “filosofia” dei vari Carmine Schiavone, il quale a chi gli chiedesse conto degli sversamenti rispondeva: «Ma tu quanto tempo vuoi campare?».

Quella fu un’occasione persa per unificare concretamente l’Italia, per mostrare unità e solidarietà fra il Nord e il Sud, o quanto meno per non alimentare ulteriori distinzioni, differenze e binarismi, fra l’uno – pulito, responsabile e civile – e l’altro, inquinato, illegale e immorale.

E tante altre occasioni sono state dilapidate per dare corpo all’unità sostanziale del Paese, e non solo territoriale, prima di giungere alla legge del 26 giugno 2024 n.86, la cosiddetta legge sull’autonomia differenziata, ossia il più importante ridisegno di competenze e poteri da cinquant’anni a questa parte, almeno, cioè da quando nel 1970 sono state istituite le Regioni. E non è tema cui tiene la destra o la Lega, quanto bipartisan; anzi, è stato introdotto dal centro-sinistra con la riforma del Titolo V della Costituzione e l’istituzione dei LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) con la legge costituzionale n.3 del 2001, ossia la riforma con cui, abbandonando la concezione sostanzialmente centralistica dell’amministrazione statale, si è passati ad un sistema in cui sono state fortemente potenziate le varie autonomie territoriali, attuando quel principio di sussidiarietà recepito dalla sempre più presente normativa europea.

In realtà la tendenza a percepire il Sud in maniera subalterna rispetto al Nord è un costume ormai dell’identità nazionale (nation building) e una caratteristica dell’identità meridionale. Mi riferisco alla tendenza a percepirci secondo quella logica dicotomica per cui ci rappresentiamo culturalmente di riflesso e in contrasto a un’altra realtà geografica. L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra latitudine. Così abbiamo costruito un’immagine ambivalente del Meridione – un “paradiso” turistico e un “inferno” sociale – anche se la nostra soggezione simbolica passa anche e soprattutto attraverso la definizione del Sud come luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo, come forma incompiuta di Nord.

Quindi la costruzione concettuale del Sud, da un lato, aiuta il Nord a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro; e viceversa a definire lo stesso Sud come una copia imperfetta, come una porzione della civiltà che non segue il ritmo del cuore pulsante, collocato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord “esterno” e “senza”: senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno.

Così è se vi pare: questa è storia! E per dirla con Walter Benjamin, essa è un ricordare il futuro. Perciò, cosa può insegnare la storia sull’autonomia differenziata? E l’autonomia differenziata può far bene a un Paese frammentato e dicotomico? Potrà avviare un processo virtuoso di efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche e di traino per il Sud, specchiandosi col Nord? O si tradurrà solo in più risorse per le regioni del Nord, già più ricche, a scapito di tutte le altre, senza alcun miglioramento per il Sud e forse, in termini di efficienza, nemmeno per il Nord?

In realtà la storia d’Italia su questo è abbastanza chiara. Vi sono almeno tre esempi su cui riflettere, in aggiunta a quello già menzionato. All’Unificazione, nel 1861, si osservano profonde differenze sociali fra Nord e Sud.

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L’analfabetismo, in particolare, era nel Regno delle Due Sicilie spaventosamente alto, circa l’87 per cento contro il 55 per cento del Nord-Ovest. Il Regno d’Italia cercò di rimediare estendendo a tutto il Paese l’istruzione elementare obbligatoria.
Tuttavia, inizialmente fu lasciato il finanziamento alle classi dirigenti locali: erano i singoli Comuni che dovevano autotassarsi, per istituire le scuole e pagare i maestri. La ricerca storica ha mostrato che nel Sud quelle classi dirigenti erano molto meno disposte a farlo. Sarà solo con la legge Daneo-Credaro, nel 1911, che le cose cambieranno: il finanziamento delle scuole fu avocato allo Stato, e il Mezzogiorno cominciò più stabilmente a convergere, finalmente, nei livelli di istruzione. Ma intanto si erano perduti, almeno in parte, 50 anni. Mezzo secolo, in cui si sarebbe potuto fare ben altro per recuperare il gap in quella che è la premessa fondamentale per la crescita economica e anche per il miglioramento civile e sociale: l’istruzione.

Il secondo esempio è la fase iniziale, quella riuscita, della Cassa per il Mezzogiorno. Durante il miracolo economico, prima che degenerasse. In principio la Cassa operava bene perché era autonoma dalla politica e dalle classi dirigenti locali: era un ente tecnico, terzo, che faceva capo allo Stato centrale. Riuscì a realizzare con una certa efficienza infrastrutture economiche e civili (strade, acquedotti) fondamentali per la vita del Mezzogiorno. Poi certo, nel giro di quindici-venti anni anche la Cassa si impantanò. Perché? Una parte della risposta è nella politica nazionale, che si intromise soprattutto con la creazione del Ministero per il Mezzogiorno (1964). L’altra parte si lega però al terzo esempio storico di cui conviene ricordarsi. Un esempio che si proietta fino ai nostri giorni, forse il più importante. Parlo dell’istituzione delle Regioni, nel 1970.

Sin da subito i nuovi enti presero su di sé le attività infrastrutturali della Cassa. Ebbero poi presto voce in capitolo anche nelle sue scelte strategiche, anche per il finanziamento alle imprese: con il risultato che l’intervento straordinario naufragò in mille rivoli di spesa assistenziale, improduttiva. Non si sarebbe mai più ripreso. Ma non si sarebbe mai più ripreso il Sud, soprattutto. Mentre una nuova classe dirigente, assistenziale, metteva radici nelle istituzioni locali. E le conseguenze non sono solo per la crescita economica. La sanità al Sud, gestita dalle Regioni, è peggiore di quella del Centro-Nord, anche al netto di una spesa un po’ minore. I servizi universitari, dalle mense alle residenze alle borse di studio, sono in capo alle Regioni, e al Sud risultano estremamente deficitari, cosa che peraltro contribuisce alla perdita di giovani meritevoli nel Mezzogiorno.

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Sia chiaro: non si tratta di rivendicare assistenzialismo. Ma di fare i conti con la realtà degli assetti di potere interni al Mezzogiorno, e con le regole con cui operano e spendono le Regioni italiane. Sono questi e quelle che andrebbero cambiati: altrimenti, che i soldi siano tanti o pochi, sarà sempre la stessa storia.

Tutta la storia del Mezzogiorno insegna che il primo problema non è la quantità dei finanziamenti, ma come vengono gestiti. Con quali logiche e su quali progetti. Che cosa fa l’autonomia differenziata per cambiare questo stato di cose? Nulla. Assolutamente nulla. 

Senza modificare le storture, ma solo con meno soldi. Che poi almeno il Nord ci guadagni, in termini di efficienza, è tutto da dimostrare: avremmo una politica regionale potente, ma giocoforza meno controllata di quella nazionale, dato che a livello locale stampa e opinione pubblica non sono altrettanto vigili (e ricordiamoci di quello che è successo in Lombardia o in Liguria: i governatori Formigoni e Toti, ai domiciliari).

Su cosa dunque il Sud dovrebbe prendere insegnamento e spunto dal Nord? Detto fuori dai denti: l’autonomia differenziata è forse emblematica del declino dell’Italia. C’è un paese che, come nazione, sta andando allo sfascio. Ognun per sé. La Lega, in questo, è il vero partito anti-italiano: tira fuori il suo volto autentico, la sua ideologia fondante, la peggiore: l’egoismo del più forte. Non solo. Le attuali richieste delle Regioni del Nord si basano su una pre-intesa siglata con il governo Gentiloni, nel febbraio 2018. Senza contare che fra i richiedenti c’è anche l’Emilia-Romagna, a guida Pd: benché attestata su posizioni più ragionevoli, nemmeno lei aspira a una riforma complessiva.

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I primi meridionalisti sostenevano che il problema del Mezzogiorno fosse un problema nazionale. Ove persisteva la chiave degli equilibri politici e sociali auspicati per tutta l’Italia; anche se, di contro, la storia si è mossa in altro senso. Ciò nonostante l’Italia resta uno dei Paesi del gruppo di testa del mondo contemporaneo e dei mercati globali; il reddito medio di famiglia tiene botta a tutte le crisi e all’inflazione incontenibile, ma alcune province meridionali ancora restano all’ultimo posto del parterre europeo e vi è un crescendo della povertà – assai spesso nascosta.

Oggi più di ieri, il Mezzogiorno sarà quel che l’Italia sarà. E se il Sud si riflette sul Nord, non può che accettare supinamente una legge che frammenterà ulteriormente il Paese. Ma se il Sud ritroverà la propria identità e differenza, il proprio riscatto come in quelle giornate del 2006, ecco, potrà anche ritrovare la chiave del suo autodecollo definitivo, invertendo la rotta dell’autonomia differenziata e coinvolgendo le comunità nelle scelte economico-sociali e politiche.





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