Ventisei milioni di nuovi sfollati, ecco i danni dei disastri ambientali

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Il cambiamento climatico è ormai l’elefante nella stanza della politica internazionale. Eppure, come ci ricorda la quarta edizione del report Migrazioni ambientali e crisi climatica, a cura di Marica Di Pierri e Maria Marano dell’associazione A Sud, pubblicato nel gennaio 2025, il fenomeno è trattato come un’ombra che sfugge alle definizioni, e quindi alle soluzioni. Questo report è un appello urgente per riconoscere le migrazioni climatiche come un problema globale, da affrontare con strumenti giuridici, politiche inclusive e un netto cambio di paradigma.

Una crisi globale, numeri implacabili

Il 2024 si è chiuso come l’anno più caldo mai registrato, con temperature medie globali di 1,54°C sopra i livelli preindustriali. Questo collasso climatico è alla radice di flussi migratori che riguardano milioni di persone. Secondo l’IDMC, nel 2023, i disastri legati al clima hanno causato 26,4 milioni di nuovi sfollamenti, con Paesi come Cina, Bangladesh e Somalia particolarmente colpiti. La Banca Mondiale prevede che entro il 2050, 143 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare all’interno dei loro Paesi in Africa subsahariana, Asia meridionale e America Latina. Tuttavia, queste cifre non tengono conto degli impatti a lungo termine: desertificazione, aumento del livello del mare e stress idrico stanno già rendendo intere regioni inospitali.

Ad aggravare il quadro, i dati pubblicati dall’UNESCO e dall’UNICEF evidenziano che 2 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso ad acqua potabile sicura, mentre 450 milioni di bambini vivono in aree ad alto rischio di scarsità idrica. L’incremento delle disuguaglianze idriche si traduce in una pressione migratoria sempre maggiore, rendendo ancora più urgente l’adozione di misure globali coordinate.

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Testimonianze dirette: un quadro inquietante

Il progetto “Le Rotte del Clima” ha raccolto le voci di 348 persone migranti, di cui il 25% provenienti dal Bangladesh. Le loro storie mostrano una realtà comune: il rischio di morte personale e di familiari, la mancanza di acqua potabile, l’impossibilità di coltivare la terra e la distruzione delle abitazioni. In molte aree, il degrado climatico è esacerbato da politiche governative inefficaci. Ben l’84,7% degli intervistati ha dichiarato che le autorità locali non si sono attivate per mitigare gli effetti dei disastri climatici.

Le testimonianze raccolte rivelano inoltre una discriminazione sistemica: il 41,3% degli intervistati apparteneva a minoranze etniche, spesso lasciate senza supporto durante le emergenze climatiche. Questo dato sottolinea l’urgenza di politiche che affrontino non solo l’impatto climatico, ma anche le disuguaglianze sociali e culturali che ne amplificano le conseguenze.

Il vuoto normativo

Nonostante l’evidenza, i migranti climatici non godono di uno status giuridico riconosciuto. La Convenzione di Ginevra del 1951 esclude questa categoria, relegandola a una zona grigia di diritti negati. Il Global Compact for Migration del 2018 è un passo avanti, ma resta volontario e senza vincoli stringenti. Alcuni progressi arrivano dai tribunali: la decisione del Comitato per i diritti umani dell’ONU sul caso Teitiota ha riconosciuto che il degrado climatico può costituire una base per la protezione internazionale. Tuttavia, manca ancora una normativa globale che affronti il problema alla radice.

In Italia, la normativa sulla protezione per calamità naturali, recentemente modificata con il decreto Cutro, limita ulteriormente le possibilità di riconoscimento. Il requisito di eventi “contingenti ed eccezionali” rende quasi impossibile ottenere un permesso di soggiorno per motivi ambientali, escludendo le situazioni di degrado climatico progressivo.

Le disuguaglianze climatiche

La crisi climatica non colpisce tutti allo stesso modo. Il report evidenzia come le comunità più vulnerabili, spesso nei Paesi del Sud globale, siano le più esposte agli impatti devastanti del cambiamento climatico. In Bangladesh, le alluvioni del 2023 hanno colpito 4,5 milioni di persone, lasciandone 190.000 senza casa. Simili eventi si verificano in altre regioni: le Filippine e la Somalia sono state teatro di devastazioni che hanno distrutto i mezzi di sussistenza di milioni di persone.

Mentre il Nord globale dispone delle risorse per mitigare gli effetti, il Sud globale resta intrappolato in una spirale di povertà e vulnerabilità. Secondo il rapporto Adaptation Gap dell’UNEP, i Paesi in via di sviluppo avrebbero bisogno di 187-359 miliardi di dollari all’anno per finanziare strategie di adattamento, ma nel 2022 i fondi disponibili erano solo 28 miliardi.

Cosa fare: raccomandazioni urgenti

Il report non si limita a descrivere la crisi, ma propone soluzioni. Tra queste, l’inclusione delle migrazioni climatiche nelle politiche del Green Deal europeo, la creazione di percorsi legali per la mobilità climatica e l’allocazione di finanziamenti per l’adattamento nei Paesi vulnerabili. Inoltre, si sottolinea la necessità di adottare un approccio integrato che consideri sia gli impatti climatici sia quelli sociali.

Le migrazioni climatiche sono una realtà ineludibile, non un’ipotesi. La giustizia climatica non è solo un imperativo morale: è una condizione per garantire la sopravvivenza collettiva. Perché, come ci ricorda il report, il clima è il filo rosso che unisce le disuguaglianze globali, e affrontarlo significa affrontare le radici stesse delle nostre crisi.

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