Saltano le informative di Piantedosi e Nordio. Anche Meloni si nega. La sinistra si compatta. Conte apre alla proposta Franceschini-Bettini
Le camere si bloccano, riapriranno i battenti solo il 4 febbraio. Le opposizioni, tutte insieme, scartano l’idea di un Aventino. Qualcuno propone di occupare l’aula. Alla fine la decisione è stoppare i lavori finché un esponente del governo – loro reclamano Giorgia Meloni – andrà a spiegare per quale ragione lo scorso 21 gennaio il torturatore libico Almasri è stato liberato e restituito al suo infame lavoro, con tanto di volo di stato e fuochi artificiali a Tripoli. Per ora il governo «ha suonato la ritirata», spiega Davide Faraone.
Ministri in fuga
A Montecitorio e al Senato l’atmosfera si è infiammata dalla mattina. Matteo Piantedosi e Carlo Nordio hanno fatto sapere alle agenzie che non si presenteranno per le informative in calendario alla Camera. Ma sono riusciti a scrivere uno straccio di motivo solo nel pomeriggio, con una lettera al presidente Lorenzo Fontana.
Colpa dei magistrati che li hanno «indagati», sostengono. «Nel rispetto del segreto istruttorio, non sarà possibile rendere le informative previste nella giornata di oggi». Non sta in piedi, spiega il senatore Enrico Borghi di Italia viva: «Non si è mai visto che un ministro oggetto di una comunicazione di iscrizione a un’attività giudiziaria si sia sottratto al confronto in parlamento».
Gli esempi di ministri indagati che hanno riferito dei propri casi alle camere si sprecano, da Matteo Salvini a Daniela Santanchè a Roberto Speranza. Infatti più tardi in tv ad Alberto Balboni, FdI, sfugge la verità: «È una scelta discrezionale degli interessati». E così smentisce i due disertori d’aula. Al Senato le opposizioni hanno abbandonato l’aula proprio dopo le sue parole: «È un’umiliazione del parlamento quella che certa magistratura fa della democrazia e della sovranità popolare». Tutti fuori. Dietrofront solo per rendere omaggio a Liliana Segre.
Ma c’è un accordo nella minoranza: non farsi incastrare a discutere dell’“avviso di garanzia” – Meloni lo chiama così, in realtà è un’iscrizione al registro degli indagati – della procura di Roma indirizzato alla premier, a Piantedosi, Nordio e al sottosegretario Alfredo Mantovano. L’imperativo è: non cadere nella trappola, non accettare il piano dello scontro con la magistratura, è solo un modo per non parlare dei guai in cui si è infilato il governo. Quindi reclamano la riunione dei capigruppo in entrambe le camere, al Senato con una conferenza stampa unitaria. E restano concentrate sulla richiesta di informativa.
Meloni parla solo sui social
A Montecitorio le minoranze fanno saltare il calendario di giornata. «Ci sono domande enormi che quest’aula ha il diritto di porre al governo», scandisce Riccardo Magi di +Europa, «vogliono sostituire la comunicazione della presidente del Consiglio a mezzo social al luogo della democrazia parlamentare». Sui social la premier ha raccontato, con un video, che il torturatore è stato liberato per colpa dei magistrati, ed è stato rimandato in Libia per questioni di «sicurezza nazionale».
«Sicurezza di chi?» chiede l’ex ministro Andrea Orlando da La7: del governo che non può svelare i suoi accordi con i trafficanti di uomini che doveva perseguire in tutto il «globo terracqueo»? «Non c’è ragione di stato e di opportunità politica che consenta la liberazione di un assassino, di un torturatore, di uno stupratore, uno che organizza il traffico di esseri umani», insiste Matteo Orfini (Pd). Palazzo Chigi, dove regna altrettanta confusione, fa filtrare l’offerta di un agnello sacrificale, il ministro dei Rapporti con il parlamento Luca Ciriani. Le minoranze rispondono picche: «Venga Meloni».
Ma, dopo la capigruppo, Chiara Braga (Pd) riferisce che era un’altra balla: fin qui «non è stata data nessuna disponibilità a riferire, né dalla premier né da Nordio e Piantedosi. E nemmeno da Ciriani. Adducendo come motivazione che hanno bisogno di studiare le carte». In serata Elly Schlein dai social si rivolge direttamente a Meloni: «Deve dire la verità, la liberazione di Almasri è stata una scelta politica del governo italiano». Ma se ne riparla martedì: e speriamo che a quel punto il governo abbia “letto le carte” e deciso chi immolare in parlamento, per rispondere di un guaio che loro stessi hanno reso indicibile senza perdere la faccia. Intanto vengono cancellate le riunioni di commissione, salta anche la seduta per l’elezione dei giudici costituzionali, prevista per oggi: ma qui è solo una scusa, Forza Italia ancora non ha deciso il suo nome.
Alle 14 e 30 alla sala stampa di Montecitorio i rossoverdi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli convocano una conferenza stampa. Non il solito attacco alla destra. Parlano tre uomini. Sono rifugiati, sono stati torturati. Ad ascoltarli non ci sono solo i cronisti: arrivano Elly Schlein, Maria Elena Boschi, Vittoria Baldino, Magi. Alla fine c’è un comunicato delle opposizioni: «Oggi un’informativa sul caso Almasri c’è stata. Ed è stata un bagno di verità, dura, come succede quando le storie di persone in carne ed ossa irrompono sulla scena. A farla però non è stato il governo Meloni come sarebbe stato necessario e come continuiamo a chiedere. L’hanno fatta David Yambio, Lam Magok e Mahamat Daou, vittime di Almasri».
Conte: ok, corriamo divisi
Insieme è anche l’avverbio del finale della giornata dell’opposizione. Da qualche giorno si discute della proposta di Dario Franceschini, su Repubblica: un patto per l’uninominale, correndo ciascuno in proprio al proporzionale, senza un programma di governo. Su Domani Goffredo Bettini ha fatto un passo in più: ha aggiunto un «patto repubblicano» e un manifesto comune. Schlein non ha ancora detto la sua. Ieri invece Conte ha alzato il pollice: la proposta Franceschini-Bettini «è una prospettiva su cui discutere».
Miracolo. Il dialogo non sarebbe dunque impossibile: «Il nostro obiettivo prioritario è lavorare a un progetto serio di alternativa al governo», dice, «nello stesso tempo dobbiamo anche prendere atto che le forze dell’area progressista sono tante con varie sensibilità», quindi bene la prospettiva di «lavorare in modo realistico rispettando le diversità per poi colpire uniti». Il dialogo fra opposizioni, oltre all’agenda di giornata, non è all’anno zero. E anche questo significa non cadere in una delle trappole della destra.
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