Quel preciso confine tra giustizia e politica

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«Il procuratore Francesco Lo Voi, lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona nella vicenda Open Arms, mi ha appena inviato un avviso di garanzia in relazione al rimpatrio del cittadino libico Almasri»: presidente del Consiglio Giorgia Meloni. «Proditorio attacco al governo attuato da quella magistratura che non tollera che ci sia una riforma della giustizia»: ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani. Complotto della magistratura, che a questo punto vedrebbe complici procuratore e giudici della Corte penale internazionale de L’Aja, fino ai magistrati italiani aderenti alla Associazione nazionale magistrati e infine al procuratore della Repubblica di Roma. Da più parti si ripropone la frusta denuncia della «giustizia a orologeria». Imbarazzato il senatore Gasparri perché avendo già nei giorni scorsi denunciato la «eversione della magistratura» si è trovato a corto di ulteriori invettive.

Tutto ha origine dal messaggio sui social, che oggi vuol dire mondovisione, urbi et orbi, si diceva una volta in altro contesto, della presidente Meloni. A parte l’inelegante riferimento personale al procuratore Lo Voi, che avrebbe percorso lo stivale da Palermo a Roma al solo scopo di trovarsi pronto per mettere in difficoltà esponenti della destra di governo, il nucleo del messaggio è nel riferimento ad «avviso di garanzia». Non è sottigliezza di giuridichese, nel linguaggio comune informazione, avviso, comunicazione possono apparire intercambiali, ma «garanzia» no, vuol dire qualcosa di preciso: la procura ti avvisa, a tua «garanzia» che sta compiendo un atto di indagine nei tuoi confronti. Non è affatto così. I malevoli vi vedono una precisa strategia comunicativa, i benevoli un eccesso di ossequio alla efficacia comunicativa da parte degli esperti. Ma il messaggio che è stato lanciato fa intendere una scelta discrezionale del malevolo procuratore Lo Voi, mentre se vi è un atto dovuto (sfidando l’Accademia della Crusca azzarderei «dovutissimo») è proprio questo. Per fortuna la diffusione sui siti di informazione del testo, anzi della fotto, dell’atto della procura di Roma ha fatto giustizia di questa disinformazione. Un esempio di come, a differenza di quanto si è voluto imporre per altri atti giudiziari, i riassunti possano tradire il senso e che l’unica garanzia di corretta informazione sia la pubblicazione del testo integrale.

Di fronte a una denuncia, che non sia palesemente di un folle, la legge costituzionale n. 1 del 1989: prevede che: «Il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio di cui al successivo articolo 7 (cosiddetto Tribunale dei ministri), dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati» (art 6. comma 2). Il termine è strettissimo proprio perché al procuratore è preclusa ogni indagine. Orologeria perché la comunicazione è stata inviata il 28 gennaio quando il 29 gennaio era previsto che il governo riferisse in Parlamento? Ma se la comunicazione fosse stata inviata il 30 egualmente orologeria perché si sarebbe detto che il procuratore aveva teso un’ imboscata al governo, inducendolo a riferire in Parlamento senza essere al corrente della attivazione della procedura.

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Ora i passi successivi. Il Tribunale dei ministri ha un termine brevissimo, novanta giorni, per compiere indagini preliminari con due possibili esiti: archiviazione con decreto non impugnabile o trasmissione alla Camera competente. L’autorizzazione a procedere può essere negata se la Camera reputa, «con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo».

Un preciso confine tra giustizia e politica posto dal saggio legislatore del 1989, ma il presupposto è l’assunzione di responsabilità politica per le scelte di governo. Ciò che finora non è avvenuto: contrariamente a quanto si tende a disinformare, la corte di Appello di Roma ha disposto la scarcerazione di Almansri perché il ministro della Giustizia, tempestivamente e ripetutamente sollecitato a confermare la richiesta di arresto, semplicemente non ha risposto. Avrebbe potuto addurre «il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo», magari con sinteticissima motivazione, adducendo il segreto di Stato. Non lo ha fatto.

Un problema aperto. Se oggi il governo assumesse, con atto formale, quella responsabilità politica che il ministro Nordio aveva eluso, il Tribunale dei ministri potrebbe trovarsi a dover valutare se ricorre la causa di giustificazione generale dell’«esercizio di un diritto o adempimento di un dovere» (art. 51 codice penale) e, se del caso, procedere all’archiviazione, non impugnabile, senza neanche trasmettere gli atti alla Camera. Rimarrebbe aperto il problema della compatibilità di un tale atteggiamento del governo italiano a fronte dell’«obbligo generale di cooperare» di cui all’art. 86 dello statuto della Corte penale internazionale che viene chiamato “Statuto di Roma” per essere appunto stato firmato a Roma nel 1998. Sarebbe proprio l’Italia a non adempiere gli obblighi assunti a Roma.

Questioni complesse e delicate, ma il discrimine tra assunzione di responsabilità politica del Governo e procedure giudiziarie, internazionali e interne, è chiarissimo. Fare confusione, indurre scorretta informazione non giova alla fiducia di cui le istituzioni della politica e della giustizia devono godere in un ordinamento democratico.



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