Dopo anni di retorica isolazionista, ora tocca all’aggressività. I negoziati e le mire espansionistiche secondo alcuni analisti
“L’America ha bisogno di una politica estera?”, si chiedeva Henry Kissinger in un libro ventiquattro anni fa. Con il nuovo millennio, diceva il diplomatico, gli Stati Uniti “hanno avuto un ascendente senza precedenti nel mondo”. Questo ascendente sembra essersi sgonfiato, almeno nella percezione pubblica. Lo stesso Donald Trump lo implica nel suo slogan “Make America Great Again”, e lo esplicita nel suo discorso di giuramento al Campidoglio: lui farà rinascere “la vitalità della più grande civiltà della storia”. Come sarà quindi la nuova politica estera americana? Trump ha usato per anni le retoriche isolazioniste che hanno portato i deputati più a destra a cercare di bloccare gli aiuti all’Ucraina attaccata dalla Russia, con discorsi contro il neoconservatorismo di George W. Bush – “Non saremmo mai dovuti andare in Iraq”, diceva – con una spinta bannoniana a occuparsi solo dei propri confini, instaurando un divieto d’ingresso per i musulmani, il “Muslim ban”, e promettendo di organizzare massicce deportazioni. Il tutto condito da rapporti non istituzionali con Putin (telefonate di cui non conosciamo la precisa natura), e dall’esaltazione costante di leader autocratici e illiberali, come Viktor Orbán. Negli ultimi mesi però l’influenza del mega donatore multimiliardario Elon Musk ha portato il neopresidente ad avvicinarsi a una prospettiva quasi imperialista, non nascondendo mire espansionistiche, anche con l’uso di forze militari, verso il Canale di Panama, dove la presenza cinese sarebbe troppo alta da tollerare, e verso la Groenlandia. Oltre a un invito verso il Canada, il vicino del nord, a diventare il 51esimo stato.
Trump ha elevato il presidente imperialista William McKinley, che rese gli Stati Uniti un impero multi continentale, a nuovo modello con un approccio commerciale, da imprenditore. Nella prima settimana di presidenza questa dottrina è stata messa in pratica per spaventare i paesi che non vogliono accettare gli immigrati cacciati dal suolo statunitense, come la Colombia. Ma c’è ancora confusione su quale sia la vera dottrina trumpiana che verrà messa in pratica in questi quattro anni. “A differenza di molti altri presidenti, Trump non è particolarmente ideologico”, dice al Foglio il direttore della rivista Foreign Policy, a lungo corrispondente della Cnn, Ravi Agrawal. “La sua visione di America First è quella in cui gli Stati Uniti usano il loro potere e influenza per ottenere quello che lui vede come ‘miglior affare’ per gli americani. Trump è transazionale. Crede nella negoziazione uno a uno, facendo leva sul potere statunitense e con branding e marketing trasforma in vittorie questi accordi. Se c’è però qualcosa su cui Trump potrebbe essere ideologico è il potere delle tariffe. La maggior parte degli economisti è in disaccordo con l’uso delle tariffe come randello in geopolitica, ma Trump crede genuinamente che possano essere usate come tattiche di negoziazione a vantaggio di Washington, a prescindere dal fatto che sia in conflitto con le leggi e le norme internazionali”. David Frum – che aveva lavorato con W. Bush – qualche tempo fa sulle pagine dell’Atlantic definiva sbagliato il termine isolazionismo preferendo quello di “predatorio”, nel senso che “le nazioni straniere pagano gli Stati Uniti per avere protezione militare, e dove gli scambi sono organizzati in modo che gli Stati Uniti vincano e gli altri paesi perdano”. L’ha riassunto bene anche la direttrice dell’Economist, Zanny Minton Beddoes, che ha messo un Trump in copertina che cammina sul mondo sulla rivista inglese: “La dottrina Trump si basa sull’idea che la forza americana, brandita in modi opportunistici e non convenzionali, sia la chiave per la pace e la prosperità”. A gestire la politica estera trumpiana, almeno a livello procedurale ci sarà Marco Rubio, senatore della Florida che aveva sfidato Trump alle primarie per il 2016. Allora si insultarono, lui lo chiamava “Little Marco”, l’altro fece commenti sulle piccole mani di Trump, “sapete cosa dicono, mani piccole…” – scambi sull’anatomia del Tycoon che diventarono virali. Poi col tempo Rubio è entrato nell’orbita trumpiana, ma non ha mai del tutto smesso di condividere visioni geopolitiche diverse da quelle dell’alt-right, è stato ad esempio uno strenuo difensore dell’Ucraina, aggressivo verso Cuba e Cina, paese che torna a preoccupare il mercato americano per i suoi nuovi successi su quello che Trump vorrebbe fosse l’eccellenza americana: l’intelligenza artificiale.
Il giornalista e storico Sam Tanenhaus, che dieci anni fa intervistò Rubio sul New York Times, ci dice che allora, parte di quella corrente repubblicana dei “reformicons” – gruppo di repubblicani che cercava di riformare e rendere attraente il partito repubblicano non solo per gli anziani bianchi benestanti – era “giovane e pieno di entusiasmo”. Il punto, ci dice il giornalista, “è capire se Rubio può adattare un pensiero più ‘globalista’ al gingoismo trumpista”, isolazionista e aggressivo allo stesso tempo. “Non abbiamo ancora chiaro come funzionerà la politica estera nella Casa Bianca di Trump 2.0, se sarà possibile che funzioni in modo non caotico, con un programma chiaro”. Ma perché scegliere Rubio, che sembra in parte appartenere a un Gop lontano dal mondo Maga? “Si dice che sia riuscito a fare amicizia con Trump durante la campagna”, spiega Tanenhaus, “e ha fatto vari discorsi pubblici in spagnolo a un pubblico selezionato”. La vittoria del voto popolare di Trump quest’anno si deve anche a uno spostamento dell’elettorato ispanico, e Rubio è stato per Trump, accanto a lui nei comizi, il simbolo dei latinos repubblicani, soprattutto dopo che un comico a un evento della campagna Maga aveva paragonato Portorico a un’isola di spazzatura. Nel primo mandato il senatore della Florida gli aveva fatto da consigliere non ufficiale sui rapporti con l’America latina, influenzando le politiche contro Venezuela e Cuba, ma facendosi notare anche come un grande critico di Xi Jinping. “Rubio è molto più piacevole e ossequioso, anche più affascinante, di molti altri senatori sia dentro che fuori l’orbita di Trump”. Rubio voleva fare il vicepresidente, Trump gli ha detto di no – su pressione di Donald Trump Jr. e della destra tech, che voleva un suo uomo, J. D. Vance – e così gli ha dato un ministero importante, il Department of state, forse il più importante, dove serve qualcuno che ha esperienza se non altro a Washington. Da quando Trump ha vinto, ci dice l’ex direttore della New York Times Book Review, “lui e la sua compagnia vengono trattati come un fenomeno più ‘normale’ nella storia e nella politica statunitense. E Rubio sembra esserne la prova principale”. Figlio di immigrati cubani, cresciuto a Miami, ha lavorato come barista, o facendo le pulizie, ed è anche un modello dell’American dream.
Appena arrivato a Foggy Bottom Rubio ha scritto privatamente ai diplomatici americani: “Mettere al centro della nostra politica estera l’interesse nazionale sembra buon senso, ma in pratica è una visione che sembra essere scomparsa negli ultimi tre decenni”, a causa, dice, “di leader di entrambi i partiti che hanno dato priorità alle cose sbagliate e enfatizzato l’ideologia sul buonsenso. Abbiamo frainteso il mondo e perso terreno a livello internazionale”. Rubio, che è il primo ispanico a ricoprire il ruolo (e quindi anche l’ispanico con il più alto grado nella storia degli Stati Uniti), ha deciso che il suo primo viaggio sarà in Centro America. I rapporti con l’America latina sono strettamente legati a quelli dell’immigrazione, il grande tema della campagna Maga, dove chi arriva illegalmente “mangia i cani e i gatti in Ohio”. Il 67 per cento degli immigrati irregolari proviene infatti dal Messico e dal Centro America. E Trump, mercoledì, ha detto che userà la prigione nella baia di Guantanamo, quella che Barack Obama aveva promesso di chiudere, per ospitare gli “stranieri criminali”. “Abbiamo 30 mila letti a Guantanamo per i peggiori immigrati illegali criminali che minacciano gli americani”, ha detto il presidente, promettendo che per loro sarà difficilissimo scappare dalla durissima prigione nella base della marina militare che negli anni ha ospitato terroristi di al Qaida. Nell’ultima settimana Trump ha fatto arrestare almeno 40 mila immigrati che sono stati trattenuti in prigioni locali in giro per il paese, dato che i centri di detenzione predisposti non hanno spazio e fondi sufficienti – è iniziata la grande espulsione di massa promessa in campagna elettorale. Ma il primo viaggio di Rubio ha anche a che fare con il canale di Panama, e il suo portavoce ha detto che “parte della visita riguarda il contrastare la Cina”. E ha rassicurato la stampa dicendo che non si possono bullizzare gli altri paesi, ma è importante “costruire un rapporto, far vedere che una partnership con gli Stati Uniti porta dei benefici anche a loro”. Un approccio più diplomatico di quello trumpiano.
“Bisognerà vedere se individui come Rubio o Michael Flynn riusciranno a ritagliarsi uno spazio. Per ora sembrano eseguire le forme di dealmaking preferite da Trump, con tariffe e deportazioni invece di concentrarsi su norme e alleanze, cosa invece preferita dai suoi predecessori”, spiega Agrawal. Il giorno dopo l’inaugurazione Rubio è stato approvato dal Senato per guidare il dipartimento di stato, risultando come la personalità più classica – per atteggiamento e per carriera – del circense gabinetto presidenziale. Ma la scelta, per alcuni, è anche legata alla sua combattività verso la Cina, simile a quella di alcuni senatori repubblicani della vecchia guardia. “A Washington viene sempre più riconosciuto in modo bipartisan che la Cina è la sfida di sicurezza nazionale principale a lungo termine, e mi aspetto di vedere azioni più aggressive con Trump per sfidare economicamente e diplomaticamente i cinesi, e magari anche con altri mezzi”, dice al Foglio Larry Haas, dell’American Foreign Policy Council. Haas, che ha lavorato con Al Gore e poi con Barack Obama alla Casa Bianca, ricorda che negli Stati Uniti “il presidente ha un potere enorme di dare forma alla politica estera, e Trump ha detto chiaramente che vuole dare forma a una negoziazione tra Russia e Ucraina per terminare il conflitto, invece di dare semplicemente all’Ucraina il supporto di cui ha bisogno per continuare la lotta. Non sappiamo se Rubio può o meno convincerlo a mantenere la leadership di una coalizione occidentale messa insieme da Biden”. Trump in campagna elettorale – e anche nella rotonda del Campidoglio – si è presentato come un peacemaker, promettendo che avrebbe concluso tutte le guerre in corso. Ci si chiede se l’accordo tra Israele e Hamas che ha portato alla liberazione di alcuni ostaggi il 19 gennaio abbia o meno lo zampino della nuova Amministrazione. “Trump ha imposto molta pressione al primo ministro Benjamin Netanyahu per accordarsi con Hamas, e probabilmente farà pressione a Netanyahu per chiudere le operazioni militari a Gaza. Non so se il governo israeliano sarà d’accordo, soprattutto se ci saranno altri attacchi con i razzi che arrivano da Gaza”, ci spiega Larry Haas. “E’ certo che Trump reimporrà la sua campagna di ‘pressione massima’ con sanzioni economiche e finanziarie verso l’Iran, ma lungo la strada potrebbe anche provare a fare un deal con un Iran indebolito sulla questione del nucleare”. Alcuni vedono i rapporti con le nazioni Nato a rischio, ma, ci dice Haas, “la Nato sopravvivrà, anche se i rapporti saranno più tesi anche solo perché Trump proverà a fare pressione agli alleati perché contribuiscano più alla loro difesa”, cosa su cui si è pronunciato anche Jens Stoltenberg, ex capo dell’alleanza atlantica, che dice che è ovvio che si debba spendere più del 2 per cento per la difesa.
Ma le mire verso la Groenlandia? “Come con il canale di Panama si tratta di serie questioni di sicurezza nazionale statunitense. La Russia cerca di espandere la sua presenza nell’Artico, e la Groenlandia è importante per gli interessi americani. Ma non penso che Trump cercherà di conquistarla. E lo stesso vale per il canale, dove la Cina ha acquisito parecchio controllo, ma anche qui non penso che si cercherà di conquistarlo”, dice Haas. Sulla geopolitica, su Israele e sull’Ucraina, aggiunge Agrawal, “Trump ha avuto influenza nel momento in cui ha vinto le elezioni. Da allora tutti hanno tenuto un occhio sul cambio della guardia, a prescindere da chi era nella stanza durante le negoziazioni precedenti”. E sull’influenza di Elon Musk? “Il braccio di ferro tra Casa Bianca e big business”, dice il direttore di Foreign Policy, “sarà una battaglia che definirà questa presidenza. Trump riuscirà a controllare i suoi alleati in affari, oppure i mercati eserciteranno la loro influenza su un presidente estremamente sensibile a come va la borsa? Resta da vedere”.
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