Politica industriale, tutti a Bruxelles: è finita l’illusione di poter fare da soli

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di
Dario Di Vico

L’idea di risolvere le questioni aziendali in chiave sovranista si è rivelata insufficiente. Sulle grandi partite serve un orientamento chiaro dell’Italia in Europa (vedi i casi Ilva e Stellantis)

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Politica industriale è diventata un po’ un’espressione-talismano. È sulla bocca di molti e si presta a molte considerazioni. Ci sono ovviamente i lib più ortodossi che contestano a priori lo stesso termine, l’allocazione delle risorse deve avere una logica squisitamente economica e non ci possono essere (se non distorsive) contaminazioni con la politica. C’è chi contesta il termine anche solo per la sua fumosità e sostiene che comunque indicherebbe scelte ben precise e selettive, guai invece a pensarlo come una pioggia di bonus (come spesso è accaduto in Italia). In questa classificazione, forse, però è più interessante cercare di fotografare il punto di vista della maggioranza di governo e i suoi slittamenti.
Nella fase iniziale del governo Meloni — che possiamo estendere fino ad oggi — l’idea prevalente è stata di quella poter mettere mano alle questioni dell’industria in chiave prevalentemente nazionale, qualcuno aggiunse «autarchica». L’ex ministero dello Sviluppo economico era stato ribattezzato «ministero delle imprese e del made in Italy» (Mimit) non a caso. La nazionalizzazione della politica industriale era quindi un indirizzo-chiave che ha trovato da un lato il modo di essere ribadito nel tempo, dall’altro le risorse: profuse per generare una legge sul made in Italy che aveva l’obiettivo di cantare le lodi della produzione nazionale, di istituire un’apposita giornata di celebrazioni e quindi di veicolare l’idea che la politica industriale si facesse anche così, con incentivi che possiamo chiamare politico-culturali. Non a caso anche nel centro-destra si parla di quella legge come di «un’esigenza identitaria di un governo politico».

Un milione di vetture

Anche la battaglia di maggiore impatto mediatico portata avanti dal titolare del Mimit, Adolfo Urso, aveva lo stesso imprinting. Parliamo della campagna per il milione di vetture prodotte in Italia che ha portato nel tempo a un serrato confronto con i sindacati, ma soprattutto con il gruppo Stellantis, allora guidato da Carlos Tavares. Non è questa la sede per ricordare i vari passaggi della campagna e il suo esito contraddittorio, ma sicuramente anche in questo caso ci troviamo di fronte a una dimostrazione che la nazionalizzazione della politica industriale è un’illusione. Sulle scelte di Stellantis, per quanto opinabili, non potevano non essere comprese decisioni prese in sede sovranazionali: come, innanzitutto, la regolazione dei tempi della transizione al veicolo elettrico, l’accettazione o meno del principio della neutralità tecnologica, il contesto degli incentivi previsti.
Anche nel caso Ilva, i limiti della politica industriale in un Paese solo sono emersi agli occhi del governo con estrema chiarezza. Taranto è stata commissariata in zona Cesarini per impedirne le chiusura definitiva e si è avviata la procedura di vendita, ma per poter dare all’Ilva una prospettiva di lungo termine il ministro ha capito che bisogna intervenire sulle regole del Cbam che «strozza il settore» e ci costringe a importare acciaio.




















































Le due leve 

Se questo, anche in termini sommari, è l’antefatto, la svolta è di queste settimane. Ed è una svolta che sta riguardando non solo la gestione del ministero ma il pensiero del centro-destra più largo in materia di politica industriale. A rendere più fluido questo spostamento hanno contribuito anche le riflessioni sui limiti delle due leve di politica industriale nazionale su cui contava il governo nazionale: Transizione 5.0 e l’export. Nel primo caso non si sta ripetendo affatto il successo di Industria 4.0 (l’ultimo esempio, forse, di politica industriale nazionale) perché non si è riusciti a emanare norme semplici e facilmente fruibili, con il paradosso che ci sono i soldi per finanziare l’ammodernamento tecnologico, ma le regole sono così farraginose da imbrigliare l’iniziativa degli imprenditori. Nel secondo caso pur non negando gli straordinari successi dell’export italiano, la tendenza del commercio internazionale non sembra promettere, sul breve, nuovi importanti incrementi, così decisivi dal rappresentare una exit strategy alla profonda crisi industriale che il Paese (e nello specifico alcuni settori) sta vivendo.

L’incontro a Milano

In campo più strettamente politico una dimostrazione dei mutamenti in atto è venuta dalla kermesse sull’industria, organizzata una settimana fa da Forza Italia a Milano, con la partecipazione di un bel cast di imprenditori e manager come Antonio Gozzi, Antonio D’Amato, Paolo Scaroni, Brunello Cucinelli, Emanuele Orsini e altri. Si può dire, magari esagerando un poco, che la parola Mimit quasi non è risuonata. È stato un lungo dibattito che ha messo al centro dell’attenzione i tempi delle politiche industriali e ambientali europee. È chiaro che a orientare la discussione in questa direzione hanno giocato un ruolo anche le esigenze di lotta politica, in concomitanza con la partenza della Commissione Von der Leyen-2 e con l’adozione di nuove scelte di politica industriale che culmineranno nel Clean Industrial Act. Di conseguenza, la conferenza di Forza Italia è vissuta molto sulla critica più radicale al Green Deal della Commissione Von der Leyen-1, presentato come la principale causa dei rischi di deindustrializzazione del Vecchio Continente. Tajani ha persino parlato di «scelte scellerate».
Quasi in contemporanea anche il ministro Urso, con una lunga intervista a Repubblica, ha completato il proprio riposizionamento. Dal sovranismo condito con le lodi all’ingegno italiano siamo passati alla sottolineatura più radicale che i giochi veri si fanno in Europa. Con una battuta, Bruxelles o morte. In questo suo slittamento il ministro è arrivato a sostenere l’importanza della manifestazione dei sindacati prevista per il 5 febbraio proprio nella capitale belga e ad aggiungere all’espressione «politica industriale» l’aggettivo «assertiva», quasi a sottolineare anche lui i rischi (da evitare) di ulteriore fumosità. Per preparare il terreno, Urso ha incontrato o incontrerà ben nove commissari e promette di presidiare Bruxelles tutte le settimane.

L’orientamento europeo

Ma se riconosce che le politiche nazionali possono concentrarsi soltanto sulle crisi aziendali e le scelte di reindustrializzazione, deve ancora emergere un orientamento da tenere in Europa sulle partite che contano. La potremmo chiamare la pars construens. Si dice che buona parte dei contenuti matureranno dai sei documenti (semplificazioni, chimica, automotive, Cbam, spazio) che l’Italia sta preparando in un caso con i francesi, nell’altro con gli olandesi e in un altro ancora con i tedeschi.
Ma quello che si aspettano tutti è che in questo riposizionamento maturi un profilo più compiuto delle opzioni di politica industriale europea del governo italiano, profilo meno soggetto alle esigenze di piccole constituency elettorali e più finalizzato a ridare slancio all’iniziativa comunitaria. E magari, anche, più attento alle indicazioni messe nere su bianco da un connazionale illustre, Mario Draghi.

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