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Ecco la “classifica” dei paradisi fiscali #adessonews

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Economia

di Giovanni Vasso

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Alcune banconote da 5, 10, 20, 50 Euro in una cassa din un impegato bancario. 16 aprile 2018 a Genova. ANSA/LUCA ZENNARO

Il paradiso può attendere: nell’attesa della beata speranza c’è chi se lo cerca in terra e va alla ricerca di nuovi paradisi, sì ma fiscali. Si gioca a nascondino, a rimpiattino nel tentativo di pagare meno imposte possibili. La cronaca recente, di questi casi, ne conta a decine. Ma quali sono gli Stati, nel mondo, che risultano essere i più “ospitali” con le aziende e le multinazionali che tentano di pagare meno tasse? Una risposta ha provato a darla l’ong Tax Justice Network che, ieri, ha aggiornato il report Corporate Tax Haven Index che mette in fila, dal primo all’ultimo, gli Stati che presentano le giurisdizioni e le leggi fiscali più allettanti del mondo. Insomma, la classifica dei paradisi fiscali. E ai primi tre posti ci sono tre autentiche “certezze”, mete da sogno per i finanzieri di tutto il mondo: le Isole Vergini britanniche, seguite dalle Cayman, stracitate che ormai, anche grazie a cinema e serie tv americane sono diventate una sorta di luogo comune dell’offshore, dei furbetti delle tasse. Al terzo posto ci sono le Isole Bermuda: quelle del famoso “triangolo” al cui interno non scompaiono più aerei e navi ma, secondo Tax Justice Network, finiscono miliardi e miliardi in valuta straniera esentasse.

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Accantonate le certezze che danno un tocco d’esotico alla faccenda, ecco i grandi centri finanziari mondiali. Che si confermano un’autentica garanzia di riservatezza per chi investe. Al quarto posto della graduatoria, infatti, si piazza la solida Svizzera. Alle sue spalle, a tallonarla in classifica, ci sono le tigri finanziarie del Sud-est asiatico: Singapore e Hong Kong. Poi una raffica di Paesi europei: al settimo posto c’è l’Olanda, seguita a ruota dal semisconosciuto Baliato di Jersey, un pugno di isolette che si trovano nel Canale della Manica. Quindi, al nono posto, c’è l’Irlanda che scalza il granducato di Lussemburgo che chiude la top ten. Qualcosa, con ogni evidenza, è destinato a cambiare dalle parti di Dublino dopo la pronuncia della Corte Ue che ha sanzionato e annullato l’accordo fiscale tra il governo locale e Apple che, se da una parte riporterà nelle casse dell’Eire un fiume di denaro pari a ben tredici miliardi di euro, dall’altro rischia di incrinarne l’immagine di porto sicuro per le grandi multinazionali che si affacciano ai ricchi mercati della perfida Europa.

Le sorprese, nella graduatoria, non mancano. Anzi. E arrivano subito dopo un’altra serie di antichi e affidabili paradisi artificiali dal fisco amico, come, tra le altre, le Bahamas e Cipro che era divenuta la base finanziaria americana di numerose aziende russe prima che esplodesse il conflitto con l’Ucraina e, di conseguenza, si esacerbassero del tutto i rapporti con l’Europa. Per Tax Justice Network, Cina (16esima), Regno Unito (18esima) e Francia (19esima) fanno addirittura meglio di Malta che si piazza solo al ventesimo posto. Ma c’è posto anche per l’Italia. Siamo 29esimi. Prima di Curaçao e veniamo dopo la Svezia e gli Stati Uniti che, in questa graduatoria, si piazzano al 25esimo posto, quasi nove passi indietro rispetto agli “avversari” cinesi. Il “contributo” del nostro Paese ai presunti abusi finanziari in tutto il mondo è pari allo 0,8%. Meno della metà di quanto “pesino” in questa classifica Francia e Regno Unito.

La questione dei paradisi fiscali è apertissima almeno in Europa. Il dibattito si concentra, ormai da tempo, sul dumping che alcuni Paesi metterebbero in campo contro gli altri all’interno della stessa Ue concretizzando, così, delle distorsioni nel mercato interno. Cosa nota, si direbbe trita e ritrita. Il dibattito sui paradisi fiscali, però, è tornato d’attualità con la nomina dell’olandese Woepke Hoekstra nella commissione bis di Ursula von der Leyen. Già dirigente Shell, e per questo nel mirino della sinistra e dei Verdi, era finito, qualche anno fa, invischiato nel caso dei Pandora Papers per aver investito poco più di 26mila euro in una società che si scoprì aver sede alle Isole Vergini britanniche, quelle che detengono saldamente il primato della graduatoria di Tax Justice Network. Si scusò dicendosi all’oscuro di tutto e il caso finì lì. Finora.


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