Attenuare l’impatto ambientale del jeans: spazio alle start-up #adessonews

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L’industria tessile è una delle più inquinanti, ma è anche tra quelle che stanno realizzando le ricerche più accurate per mettere a punto un nuovo modo di produrre. Uno degli emblemi del cambiamento – che non avverrà in tempi brevi – è il denim, fra i tessuti più utilizzati (un mercato di oltre 63 miliardi di dollari) e dal maggior impatto ecologico. Colpa della sovrapproduzione, dell’uso intensivo di cotone, dei procedimenti chimici e del consumo di acqua: la creazione di un singolo paio di jeans può richiederne fino a 4mila litri. È impensabile una moda più sostenibile senza un denim più sostenibile. La buona notizia è che ci si sta già muovendo in questa direzione e il nostro Paese è una delle avanguardie, su ogni scala: l’impegno in chiave green coinvolge le aziende storiche come le start-up fondate negli ultimi anni. Se si parla di denim in Italia, non si può che partire da Candiani, impresa tessile quasi secolare (nata nel 1938, oggi è alla quarta generazione), tra le più grandi d’Europa, che segue verticalmente l’intera produzione, dalla filatura alla tessitura. Il brand ha affrontato il percorso verso la sostenibilità fin da quando la sua sede centrale si è ritrovata inserita nell’area protetta del Parco naturale del Ticino. «Dal punto di vista estetico, un jeans eticamente responsabile, per il consumatore, è indistinguibile da uno gravemente impattante: questa è la nostra sfida», spiega Simon Giuliani, global marketing director, toccando un tema cruciale: l’educazione di chi acquista.

Abito asimmetrico (698 €) e pantalone (625 €) patchwork; sciarpa in mohair e lana merino (285 €), tutto CAVIA.

Una delle novità che hanno rappresentato una svolta per Candiani è stata l’invenzione del jeans stretch. Un tessuto flessibile, che normalmente richiede una lavorazione molto inquinante e che invece ha dato il via a una delle più significative innovazioni dell’azienda, la tecnologia Coreva, il primo filato denim biodegradabile e compostabile, grazie all’uso di prodotti chimici naturali. Quando raggiunge il fine vita, la parte che non può essere riciclata diventa compost. Oggi i jeans Coreva hanno superato la fase di prototipo e sono presenti nelle forniture di brand attenti all’ambiente come Stella McCartney e Diesel. Nonostante sia un’impresa B2B, che lavora con altri brand, Candiani ha aperto una micro-factory a Milano (jeans custom da 245 euro). L’obiettivo è mostrare cosa voglia dire optare per una produzione alternativa del jeans: «La nostra idea è raccontare la sostenibilità senza menzionarla e restituire valore al capo», precisa Giuliani.

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Top (350 €) e gonna patchwork (700 €), SCPT con denim upcycled JACOB COHËN.

Durante il lockdown, la consulente per il design Martina Boero ha iniziato a concepire il progetto Cavia, una via di mezzo tra la costruzione di un portfolio e un modo per esprimere la sua creatività. «All’origine, un percorso di cambiamento personale: diventata vegetariana, nel 2019 ho iniziato a fare attenzione all’impatto che ogni aspetto della mia vita – lavoro incluso – ha sull’ambiente». Con i fornitori chiusi, Boero ha scelto l’upcycling, il riuso dei tessuti di scarto. «È un concetto molto americano al quale ho applicato tradizioni e gusti italiani». L’idea è cresciuta fino a trasformarsi in un’attività commerciale, e il denim è arrivato dalla seconda stagione (jeans da 600 euro). Non è stato facile individuare una materia prima lavorabile e, insieme, di qualità. Ora Cavia utilizza capi Levi’s: dall’azienda di San Francisco, ciclicamente, arrivano dei pacchi, da cui prende il via l’atto creativo. «Quando apri la consegna, non sai mai esattamente cosa troverai». Anche per Cavia il vero orizzonte della sostenibilità consiste nel restituire valore al capo: Boero ha deciso di farlo inserendo una sorta di passaporto per ogni prodotto, in modo che il cliente sappia quante ore di lavoro sono servite per realizzarlo e il nome della persona che lo ha lavorato. «Consente di creare un legame emotivo con quello che indossiamo e contribuisce a superare l’idea dell’usa e getta». Cavia è una piccola realtà globetrotter, la materia prima arriva dagli Usa, viene lavorata in Italia, ma i mercati sono asiatici, Cina, Giappone e Corea del Sud: «Nel nostro Paese, le potenzialità dell’upcycling sono ancora sottovalutate».

SCPT è un altro progetto recente, nato nel 2023, dopo diversi anni di studio. I soci sono tre: Emanuele Formica è il direttore creativo, Francesco Caputo cura la parte commerciale, mentre Matteo Capitanio è il chief sustainability manager. Interrogati su cosa implichi una moda sostenibile, non hanno dubbi: ridurre la produzione di fibra vergine, andando oltre il riciclo. Come spiega Capitanio, «noi prendiamo i tessuti così come sono, li trattiamo meccanicamente, a bassa tecnologia». Il denim è stato il punto di partenza: resistente, elastico, si può tagliare più volte senza che si sfibri e si presta a diverse forme di creatività, incluso patchwork e uncinetto. I tre soci hanno iniziato a realizzare jeans nuovi svuotando armadi e raccogliendo donazioni di amici. L’attività ha poi fatto un salto di qualità grazie alla collaborazione con il brand di luxury denim Jacob Cohën (jeans donna da 425 euro), che ha adottato il progetto e oggi fornisce a SCPT i capi che non passano il suo rigido controllo qualità, altrimenti destinati al macero. È nata così l’ultima collezione, che si rivolge soprattutto a Generazione Z e Millennial. Come spiega Capitanio, «sono i più sensibili alla sostenibilità, ma crediamo che questa attenzione coinvolgerà sempre più persone. Noi non vogliamo solo ridurre l’impatto ambientale, aspiriamo a un’autentica trasformazione culturale».

SVOLTA VERDE CANDIANI. CAVIA. SCPT.