UK, ‘vecchia’ digossina on fire: il suo uso può generare 102 milioni di sterline di risparmi

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Roma, 4 febbraio – Do you remember digoxin? Il vecchio farmaco, utilizzato per la prima volta nel Regno Unito nel 1785, rischia di tornare prepotentemente d’attualità proprio nel Paese  dove partì la sua lunghissima storia di impiego clinico. Dalle risultanze di un un nuovo studio dell’Università di Birmingham, la città in cui la molecola esordì 240 anni fa, emerge infatti che la digossina impiegata nel trattamento dei comuni disturbi del ritmo cardiaco. soprattutto dei pazienti anziani con fibrillazione atriale e insufficienza cardiaca, contribuisce ad avere “un minor numero di eventi avversi e questo potrebbe liberare posti letto negli ospedali”.

Nello studio, pubblicato sulla rivista Heart, i ricercatori hanno confrontato la ‘vecchia’ digossina con l’abituale trattamento con un beta-bloccante. I ricercatori hanno condotto un’analisi costi-benefici su uno studio clinico chiamato ‘Rate-Af’, finanziato dal National Institute for Health and Care Research. La ricerca ha incluso 160 pazienti e li ha assegnati in modo casuale a ricevere digossina o beta-bloccanti per 12 mesi. Poi è stato condotto un approfondimento per valutare dal punto di vista economico il rapporto costo-efficacia.

“Tra i pazienti che hanno ricevuto digossina si sono verificati eventi avversi sostanzialmente inferiori rispetto a chi ha preso i beta-bloccanti” evidenzia lo studio “inclusi tassi più bassi di ricoveri ospedalieri e meno visite dal medico di famiglia. Ciò ha comportato un risparmio medio sui costi di 530 sterline per paziente all’anno”. Estrapolando questi risultati rispetto al Servizio sanitario nazionale del Regno Unito, i ricercatori hanno identificato un “potenziale risparmio sui costi, pari a 102 milioni di sterline all’anno, che rappresenta quasi il 6% di risparmio sugli 1,7 miliardi di sterline spesi ogni anno per la fibrillazione atriale”.

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Per Sue Jowett (nella foto), vicedirettore dell’Unità di economia sanitaria dell’Università di Birmingham e autrice dello studio, “questo lavoro evidenzia l’importanza delle valutazioni economiche-sanitarie” rispetto alle terapie “e il ruolo che possono svolgere per fornire i trattamenti adeguati all’interno del servizio sanitario”.

La notizia che arriva dall’UK non desta comunque molta sorpresa: già nel 2013 la digossina era tornata infatti a guadagnarsi l’attenzione della comunità medico-scientifica proprio per il suo rapporto cost-effectiveness,  dopo essere stata abbandonata in seguito a uno studio del 1997 che aveva concluso che non aiutasse ad abbassare i tassi di mortalità nei pazienti con scompenso cardiaco. Da una rilettura e un’analisi più attenta dei dati effettuata da uno studio del 2013 presentato al congresso annuale dell’American College of Cardiology (Acc ) e pubblicato su American Journal of Medicine, emerse però che la digossina (o digitale che dir si voglia) può ridurre di oltre un terzo i tassi dei ricoveri ospedalieri di 30 giorni.

Riesaminando i dati relativi ai tassi di ricovero ospedaliero di 30 giorni tra i 6.800 pazienti arruolati nello studio, la metà dei quali di età compresa tra 65 anni o più, il team di ricerca scoprì infatti che i pazienti che assumevano digossina mostravano una probabilità del 34 per cento più bassa di dover tornare in ospedale entro un mese dalla dimissione, rispetto alle persone che non assumevano il farmaco. Un risultato decisamente importante, perché (al di là degli aspetti economici) dover affrontare le cure ospedaliere più volte è un fattore di rischio per morte o esiti avversi nei soggetti con scompenso cardiaco.

Insomma, già nel 2013 l’associazione dei cardiologi americani evidenziava come l’inossidabile, vecchia terapia ancora funzionasse a dovere, contribuendo a rafforzare la contrazione del cuore e aiutandolo a pompare meglio. Poi, si sa, anche la farmacologia non sfugge alla fascinazione e alla seduzione del nuovo, anche quando non necessariamente migliore, e così accade che le penne dei medici “dimentichino” certi medicinali (per quanto ancora validissimi) e ne scrivano sulle ricette altri, che immancabilmente e comprensibilmente costano molto di più.

Una vecchia storia: ricordarla urta in genere la suscettibilità di molti, scatenando tsunami di reazioni che (a fare una cruda e realistica sintesi) antepongono ad ogni altra le necessità della ricerca e dell’innovazione, fondamentali per mantenere alti i livelli di competitività dell’industria farmaceutica sui mercati. Passa molto spesso (se non sempre) in secondo piano, invece, un’altra e fondamentale necessità, quella della sostenibilità dei sistemi sanitari pubblici. Trovare il punto di equilibrio tra le due diverse esigenze è impresa davvero improba, ma bisognerà pur decidersi a farlo, se si vuole davvero assicurare un futuro al modello di sanità pubblica solidale e universale scelto dal nostro Paese. E chissà che qualche utile suggestione non arrivi proprio da storie come quelle della digossina appena ricordata.



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