Nordio e Piantedosi si immolano per Meloni, ma la difesa sul caso Almasri non regge

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Il guardasigilli ha sostenuto che l’atto della Corte è «viziato» e quindi nullo. Secondo Piantedosi, il libico era comunque «pericoloso» e andava espulso 

Per riferire al parlamento sul pasticcio del caso Almasri, il governo si presenta in trincea ma senza la sua condottiera. I banchi del governo sono affollati così come gli scranni della maggioranza pronta ad applaudire i suoi ministri, tuttavia a spiccare è la sedia vuota nel mezzo, su cui avrebbe dovuto sedersi la premier Giorgia Meloni. Invece, uno a destra e l’altro a sinistra della convitata di pietra (erano assenti anche i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani), si sono alternati i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, per spiegare – con diversa fortuna – la gestione della scarcerazione e del rimpatrio del generale libico nei cui confronti era stato spiccato un mandato di arresto della Corte penale internazionale.

La linea, tuttavia, è sempre la stessa e a veicolarla è soprattutto Nordio: il complotto dei poteri forti della Cpi, che manda un atto «in inglese», pieno di «inesattezze e contraddizioni» e «viziato fin dall’origine»; e quello di «una parte della magistratura», che «sindaca l’operato del ministro senza leggere le carte» e in questo modo «rende il dialogo molto difficile», è la chiosa che appare come una velata minaccia.

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In ogni caso, «la magistratura ha compattato la maggioranza, andremo avanti senza esitazione con la riforma della giustizia», è la sua conclusione belligerante. Il riferimento nemmeno troppo velato è anche al procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi (che ha firmato la comunicazione di garanzia sull’indagine al tribunale dei ministri) e il capogruppo al Senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri, lo ha subito ripreso. «La procura di Roma ha intentato una sortita immotivata contro il governo con atti immotivati», ha detto augurandosi un intervento del Csm.

Quello di Nordio è stato l’ennesimo affondo nei confronti delle toghe italiane e un’accusa pesante nei confronti della Cpi, a cui ha annunciato che chiederà spiegazione delle incongruenze.

Così la sua informativa si è trasformata in una sorta di difesa nei confronti di Almasri: Nordio ha sindacato l’atto della Cpi dal punto di vista giuridico, entrando nel merito dei suoi contenuti («il ministro non è un passacarte ma un organo politico che valuta»), facendo propria la dissenting opinion di una dei giudici del collegio e sottolineando soprattutto l’incongruenza temporale nell’atto.

«Gli atti delittuosi imputati ad Almasri nella parte motiva dell’atto risalgono al 2015 mentre, nella parte dispositiva con la richiesta d’arresto, al 2011» ha detto Nordio, e questa discrasia avrebbe reso l’atto nullo e dunque non inviabile alla Corte d’Appello per la convalida dell’arresto.

Gli errori di Nordio

Eppure due sono stati gli errori di Nordio. Il primo, nel merito, è stato quello di sposare una interpretazione scivolosa della legge del 2012, secondo cui il ministro avrebbe il diritto di sindacare un atto della Corte. Secondo l’articolo 4 a lui spetta solo di «dare corso» alle richieste della Cpi e, secondo la lettura dominante, il suo potere discrezionale nella consegna e nell’esecuzione delle richieste è di fatto inesistente.

In una nota la corrente progressista di Magistratura democratica ha stigmatizzato la ricostruzione di Nordio, che «si è arrogato la facoltà, che non ha, di ergersi d’ufficio a giudice d’appello di un atto giudiziario, di dichiararlo nullo e quindi di violare deliberatamente una legge dello stato che gli imponeva di eseguirlo senza sindacarlo», mandando così il messaggio che «nessuna autorità giudiziaria, nazionale o sovranazionale, potrà emettere atti sgraditi alla maggioranza politica».

Il secondo errore è logico e politico: Nordio ha fatto capire di essersi consultato con palazzo Chigi e, trovato il cavillo tecnico dei vizi dell’atto, ha scelto di non intervenire per confermare l’arresto di Almasri. Con un risultato paradossale, se letto alla luce della relazione del ministro Piantedosi secondo cui il libico era un soggetto pericoloso e non poteva rimanere a piede libero. Il ministro dell’Interno, infatti, ha chiarito che l’espulsione è avvenuta per motivi di sicurezza, a «tutela dell’ordine pubblico» e nell’«interesse nazionale».

Sommando le due informative, dunque, Almasri è stato scarcerato perché secondo Nordio la richiesta d’arresto era nulla, ma – a prescindere dall’anno in cui ha iniziato a delinquere – anche l’autorità italiana lo ha ritenuto un soggetto pericoloso proprio come sostenuto dalla Cpi, tanto da espellerlo in tutta fretta.

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Proprio su questo hanno battuto le opposizioni, chiamando in causa soprattutto la grande assente Meloni. A lei, infatti, avrebbe dovuto essere rivolta l’unica domanda utile a sbrogliare la matassa: se esisteva una questione di sicurezza nazionale, perché palazzo Chigi non ha posto il segreto di stato? E l’interrogativo agita anche la maggioranza. «Se lo avesse fatto non saremmo qui a farci impallinare», ammette una fonte interna al ministero della Giustizia che ha vissuto con apprensione le ultime ore.

Al netto di ogni spiegazione tecnica, Nordio è rimasto l’anello debole della vicenda, visto che la responsabilità di aver rimesso in libertà un torturatore libico è sua. E la stessa critica alla gestione della premier emerge anche da fonti del Viminale, che a loro volta non hanno saputo spiegarsi la scelta della presidenza del Consiglio.

Meloni, dal canto suo, ha continuato la sua giornata come nulla fosse nel palazzo accanto a Montecitorio, ricevendo il presidente del Comitato olimpico internazionale Thomas Bach. Del resto, la sua strategia è tracciata: la vicenda Almasri da dipingere come l’ennesimo attacco dei poteri forti per tentare di metterla in difficoltà, i social come unico canale unidirezionale di comunicazione e i ministri usati come scudo. «Tanto la maggioranza su questo non cadrà di certo, anzi si è compattata», è il caustico commento di un deputato di Forza Italia di lungo corso.

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