Torna in aula alla Camera la proposta delle opposizioni per ridurre l’orario di lavoro. Che cosa prevede e quali sono gli obiettivi

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Più occupazione, più produttività, meno stress lavoro-correlato, riduzione delle assenze per malattia e dei permessi, minore impatto ambientale, aumento dei consumi culturali, riequilibrio delle responsabilità familiari tra uomini e donne. Sono alcuni dei vantaggi attesi dalle opposizioni in caso di approvazione della proposta di legge unitaria sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Il testo, sintesi di quelli presentati separatamente da Pd, M5s e Avs, torna oggi all’esame dell’aula della Camera dopo aver retto lo scorso ottobre l’urto degli emendamenti soppressivi di Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Le chance di approvazione restano inesistenti, ma il via libera alla settimana corta arrivato pochi giorni fa in Spagna ha riacceso l’attenzione su un tema di evidente interesse per gli oltre 17 milioni di lavoratori del settore privato. Solo una minoranza dei quali – dipendenti di grandi gruppi come Intesa Sanpaolo, Lamborghini, Lavazza, Luxottica o Mondelez – può già oggi scegliere di distribuire il carico di lavoro su quattro giorni invece che cinque. Come prevedono le sperimentazioni avviate negli ultimi anni da gruppi di aziende o enti pubblici in molti Paesi.

Obiettivo 32 ore e “turni su quattro giorni” – Per la segretaria dem Elly Schlein la decisione del governo Sanchez, al netto del rischio di bocciatura al Congresso e dell’opposizione delle associazioni datoriali, è “una svolta storica per migliorare la qualità della vita” e “la dimostrazione che un altro modello di futuro è possibile, anche in Italia”. Dove in media, secondo Eurostat, si lavora per 36 ore settimanali che però per il 10% degli occupati arrivano a 49. Ma cosa cambierebbe se la proposta che il governo Meloni avversa diventasse legge? Va chiarito che non verrebbe imposto da subito un taglio delle giornate lavorative. Arriverebbero invece agevolazioni mirate a favorire la firma di contratti collettivi nazionali (ma anche territoriali e aziendali) che prevedano “modelli organizzativi finalizzati alla progressiva riduzione dell’orario di lavoro contrattuale fino a 32 ore settimanali, a parità di salario, anche nella forma di turni su quattro giorni settimanali, accompagnata da interventi di investimento in formazione, quale diritto soggettivo dei lavoratori, e in innovazione tecnologica e ambientale”.

Tre anni di sperimentazione con sgravi contributivi – Il percorso per arrivarci, nella proposta che vede come primi firmatari Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angello Bonelli, sarebbe dunque lasciato alla contrattazione tra le parti sociali ma con l’intervento dello Stato. Chiamato nella fase iniziale – per tre anni – a investire 275 milioni l’anno in sgravi contributivi del 30% (50% per le pmi) a favore dei datori di lavoro privati che applichino i contratti a orario ridotto. I soldi arriverebbero dal Fondo nuove competenze, rimpinguato per l’occasione: si tratta dello strumento creato durante la pandemia per ridurre gli esuberi consentendo alle aziende di “sostituire” una percentuale di ore di lavoro con corsi di formazione, per i quali il dipendente viene pagato con risorse pubbliche. Fin dall’inizio l’allora ministra Nunzia Catalfo puntava ad estendere il meccanismo per arrivare, appunto, a una riduzione delle ore lavorate a parità di stipendio.

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Se comunque i contratti nazionali con orari ridotti non si materializzassero i sindacati territoriali, le rappresentanze aziendali o almeno il 20% dei lavoratori di un’impresa potrebbero presentare a loro volta una proposta di contratto aziendale con le stesse caratteristiche che verrebbe poi sottoposta a referendum tra i lavoratori e approvata a maggioranza.

A regime riduzione dell’orario per legge – Dopo la sperimentazione triennale e sulla base delle analisi di un nuovo osservatorio ad hoc, l’orario di lavoro dovrebbe poi essere – via decreto del presidente del Consiglio – “rideterminato in riduzione”, di norma in misura “non inferiore al 10%”. Dalle 40 ore “normali” previste dal decreto legislativo 66 del 2003, che in molti casi finiscono per essere gonfiate dagli straordinari, si scenderebbe quindi a non oltre 36 ore.

Le ragioni dietro la proposta – L’introduzione della proposta di legge ripercorre la storia delle mobilitazioni dei lavoratori per ottenere giornate lavorative di 8 ore e miglioramenti salariali. Un trend che si interrompe negli anni Novanta, quando “i turni si diversificano e si estendono, si diffondono il lavoro festivo e notturno e le imprese cominciano a gestire unilateralmente l’orario di lavoro individuale”. Oggi in Italia le ore lavorate sono in media superiori alla media Ocse ma il mercato è molto frammentato: i lavoratori full time finiscono spesso per lavorare ben più di 40 ore, complici gli sgravi sugli straordinari, mentre milioni di impiegati a tempo parziale sognano il tempo pieno perché guadagnano troppo poco. In questo quadro la produttività del lavoro ristagna a causa dei bassi investimenti, che si traducono in dotazioni tecnologiche e procedure meno efficienti rispetto a quelle dei concorrenti stranieri.

Il risultato, nella diagnosi delle attuali opposizioni, è che “il contenimento del costo del lavoro non ha generato alcun beneficio sulla competitività delle imprese, in assenza di politiche della domanda che favorissero la crescita dei consumi e degli investimenti. Invece ha permesso alle imprese italiane di essere quelle con la quota di salari più bassa e la quota di profitti più alta in Europa. La conseguenza è stata quella di impedire la ripresa dell’economia nazionale, attraverso una riduzione degli investimenti e un sempre maggiore ricorso al lavoro precario e sotto-qualificato”. La settimana lavorativa corta sarebbe parte della soluzione. Ovviamente garantire lo stesso salario nonostante un calo delle ore aumenta il costo del lavoro, ma secondo i firmatari questo “sarebbe compensato e superato da un aumento della sua produttività, oltre che da una riduzione del turnover e dei costi correlati”.

Cosa si muove nella pa – Intanto sul fronte del lavoro pubblico la sperimentazione della settimana corta è già realtà: a prevederla è il nuovo contratto delle Funzioni centrali (ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici) firmato la settimana scorsa dalla Cisl, con l’opposizione di Cgil, Uil e Usb. Ogni amministrazione potrà “articolare l’orario ordinario di lavoro di 36 ore settimanali”, che resta dunque invariato, “su quattro giorni”. L’adesione del lavoratore sarà volontaria: chi sceglie l’opzione si vedrà ridurre di conseguenza le giornata di ferie e i permessi, salvo quello per matrimonio.



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