Il Paradosso dell’ASEAN nella Crisi in Myanmar a quattro anni dal colpo di stato

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A quattro anni dal colpo di Stato del 1° febbraio 2021, il Myanmar continua a essere teatro di una crisi senza fine. Oltre 6.000  civili uccisi, più di 20.000  prigionieri politici e più di 3,5 milioni di sfollati interni rappresentano il costo umano di una guerra che la giunta militare sta conducendo contro il proprio popolo. Tuttavia, il crollo del Myanmar non è solo il risultato della brutalità del regime, ma anche della paralisi dell’ASEAN, un’organizzazione regionale vincolata da rigidità strutturali e da una cultura diplomatica che privilegia la stabilità rispetto alla giustizia, dove il principio di non interferenza è diventato uno scudo per gli autocrati.

Il principio di non ingerenza, pilastro fondante dell’ASEAN, è stato concepito in un contesto storico in cui gli Stati membri temevano più le interferenze esterne che le proprie fragilità interne. Oggi, però, in un’epoca di interdipendenza economica e crisi transnazionali, questa dottrina non garantisce più la stabilità; al contrario, è diventata un pretesto per l’inazione. Le organizzazioni internazionali spesso fungono da strumenti per consolidare il potere statale piuttosto che da agenti di trasformazione, e l’ASEAN non fa eccezione. Il suo modello di governance protegge i regimi al potere, anche quando questi violano palesemente i diritti umani, come nel caso del Myanmar.

Il Consenso sui Cinque Punti, adottato nel 2021, è la prova di questo fallimento. Progettato come un compromesso tra i diversi interessi degli Stati membri, il piano era destinato al fallimento sin dall’inizio a causa della sua natura non vincolante. Sulla carta sembrava ragionevole: cessate il fuoco, dialogo e accesso agli aiuti umanitari. Tuttavia, la giunta militare ha ignorato ogni aspetto del piano, intensificando la repressione con ancora maggiore ferocia. E cosa ha fatto l’ASEAN? Non si è mossa,  permettendo ai generali di rimanere al tavolo dei negoziati mentre escludeva il Governo di Unità Nazionale (NUG). La giunta militare birmana ha usato il piano come una cortina fumogena per guadagnare tempo, intensificando la repressione senza subire alcuna conseguenza diplomatica rilevante. Il risultato è che l’ASEAN è rimasta uno spettatore impotente, incapace di imporre sanzioni o di sospendere il Myanmar dalle proprie attività.

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Il problema fondamentale è che le istituzioni internazionali tendono a proteggere chi è già al potere, piuttosto che chi lo sfida. È più conveniente interagire con chi governa, anche se si tratta di dittatori, piuttosto che sostenere chi lotta per il cambiamento. Ed è esattamente ciò che sta accadendo con il Myanmar.

Attualmente, la presidenza di turno dell’ASEAN è detenuta dalla Malaysia, sotto la guida di Anwar Ibrahim, che si trova di fronte alla difficile sfida di trasformare un’organizzazione intrappolata nella propria inerzia. Tuttavia,  il margine di manovra di Anwar è limitato da tre ostacoli fondamentali. Primo, l’opposizione interna all’ASEAN. Paesi come la Thailandia e la Cambogia, che mantengono relazioni pragmatiche con la junta birmana, probabilmente ostacoleranno qualsiasi iniziativa che metta in discussione il principio di non interferenza. Secondo, il rischio di una frattura diplomatica all’interno dell’ASEAN stessa. Riconoscere il NUG come legittimo rappresentante del Myanmar significherebbe affrontare direttamente la giunta, ma ciò potrebbe dividere l’ASEAN e rendere inutili eventuali sforzi di mediazione.

Il terzo ostacolo riguarda la questione delle minoranze etniche. La crisi in Myanmar non è solo una lotta tra democrazia e dittatura, ma anche una guerra tra il governo centrale e le milizie etniche. Ignorare questa dimensione significa perpetuare una visione statocentrica che si è già dimostrata fallimentare nel corso dei decenni.

Ciò che serve è un nuovo paradigma per l’ASEAN. Per superare la sua impasse, l’organizzazione deve riconoscere che la stabilità regionale non può più essere garantita attraverso la protezione incondizionata dei governi esistenti. La giunta birmana non è un partner negoziale affidabile, bensì un attore che minaccia la sicurezza dell’intera regione. Il primo passo dovrebbe essere l’introduzione di meccanismi di condizionalità: la partecipazione ai forum dell’ASEAN deve essere subordinata al rispetto di standard minimi di governance. Allo stesso tempo, è necessario ripensare il concetto di legittimità. Il NUG e le organizzazioni della società civile devono essere riconosciuti come interlocutori chiave. L’esclusione sistematica degli attori non statali non è solo un’ingiustizia, ma anche un errore strategico, senza il loro coinvolgimento, qualsiasi tentativo di risoluzione è destinato al fallimento.

L’ASEAN si trova a un bivio. A quattro anni dal colpo di Stato, il Myanmar è diventato il simbolo del fallimento delle istituzioni regionali. La crisi in Myanmar rappresenta una sfida esistenziale per l’ASEAN.  Se l’organizzazione continuerà a privilegiare la stabilità dei regimi rispetto alla sicurezza dei popoli, la sua credibilità sarà irrimediabilmente compromessa. Anwar ha ora l’opportunità di avviare un cambiamento strutturale, ma il tempo stringe. Ogni giorno di inazione significa più violenza, più repressione e maggiore instabilità. Se l’ASEAN aspira a essere un attore politico rilevante, deve dimostrarlo adesso. 

Questa non è solo una crisi interna al Myanmar; è una crisi che mette in discussione il ruolo stesso dell’ASEAN. Può questa organizzazione continuare a ignorare le tragedie che si consumano nei suoi confini senza perdere credibilità? Se l’ASEAN vuole essere più di un semplice club di governi, deve evolversi, prendere posizione e dimostrare la propria capacità di gestire le crisi.





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