Marcello Palmisano, ucciso 30 anni fa in Somalia

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Il 9 febbraio 1995 a Mogadiscio il giornalista-operatore del Tg2 Marcello Palmisano veniva ucciso in un agguato delle bande criminali al soldo dei commercianti di banane. Nel 2016 è stato inserito nell’elenco delle vittime innocenti della criminalità. La figlia Adelaide racconta come dalla memoria del padre sia nato il suo impegno

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

6 febbraio 2025

Un uomo coraggioso, che aveva visto e documentato attraverso l’obiettivo delle telecamere molti conflitti. Ma anche un uomo giocoso. Questo era Marcello Palmisano, giornalista e operatore del Tg2 ucciso il 9 febbraio 1995 a Mogadiscio (Somalia), dove era stato inviato insieme alla collega Carmen Lasorella per documentare la partenza dei militari dell’Onu dalla guerra: “Papà faceva molti scherzi – racconta sua figlia Adelaide Palmisano –. Spesso con mia mamma, Maria Cristina Scaccia, ricordiamo momenti che ci fanno sorridere. Ad esempio, nonostante le esperienze da inviato in zone di guerra, a casa con noi figli papà era molto apprensivo e fifone: se avevamo la febbre o ci sbucciavamo un ginocchio voleva portarci al pronto soccorso”. Stasera alle 18, alla sede di Libera in via Stamira 5 a Roma, Marcello Palmisano sarà ricordato nel corso dell’evento “Oltre il Conflitto. Raccontare la Guerra. 1995-2025, trent’anni senza Marcello Palmisano”. A lui, inoltre, è dedicata una borsa di studio voluta dal comitato guidato da suo fratello Vincenzo con il contributo del comune di San Michele Salentino (Brindisi), dove il giornalista era nato.

Marcello Palmisano al lavoro. Foto concessa dalla famiglia
Marcello Palmisano al lavoro. Foto concessa dalla famiglia

Adelaide, chi era suo padre?

Mio papà era un giornalista del Tg2. Lavorava in Rai dalla fine degli anni Sessanta. Aveva cominciato come assistente operatore e poi è diventato giornalista operatore. Era già stato inviato in Afghanistan e in Libano, aveva seguito la guerra nel Golfo e quella in ex Yugoslavia. Con mia madre abbiamo trovato di recente una sua foto scattata sul volo di ritorno da Sarajevo nel 1994. Sono sue le immagini del Tg2 del crollo del muro di Berlino o dell’arrivo dalla nave con gli albanesi a Brindisi. Aveva lavorato con Joe Marrazzo al Tg2 Dossier “Camorra” e aveva anche fatto le riprese del funerale di don Peppe Diana. In Somalia era già stato tre, forse addirittura quattro, volte.

Di cosa si stava occupando?

Il ritiro delle truppe delle Nazioni Unite dopo la battaglia di Mogadiscio. Il paese, dopo la fine della dittatura di Siad Barre, era caduto nel caos. L’Onu aveva cercato di mantenere un po’ di ordine, ma aveva fallito. La battaglia di Mogadiscio era stata anche un colpo mediatico: morirono 18 soldati statunitensi (parte del contigente Onu Unosom, ndr).

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Suo padre aveva già lavorato in molti scenari di guerra e doveva avere molto coraggio. Vi sembra preoccupato alla partenza?

Andare lì in quel momento era pericoloso. Papà lo sapeva ed era molto preoccupato. Ce lo hanno riferito i suoi colleghi, perché a noi non lo dava a vedere. Un collega e amico, prima della partenza, gli chiese se fosse convinto, perché in caso non avesse voluto andare si sarebbe trovata una soluzione alternativa. La risposta di mio padre fu: “No, ho dato mia parola”.

Leggi la storia di Marcello Palmisano su “Vivi”

E poi cosa è successo una volta arrivati?

Dopo due giorni, la Jeep su cui viaggiava la troupe con mio padre e la giornalista Carmen Lasorella è stata attaccata. Nel 2005 l’Onu ha consegnato all’Italia una videoripresa aerea. Il filmato dura 34 minuti, a noi ne sono stati mostrati soltanto 18. Si vedono due macchine che bloccano il veicolo e iniziano a sparare.

Perché?

Sembra si sia trattato di uno scambio di persone nel contesto della guerra delle banane: due compagnie, l’italo-somala Somalfruit e la Dole, finanziavano milizie armate dei signori della guerra per il controllo del territorio e del mercato. Mio padre si è ritrovato in mezzo.

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Gruppi armati guidati da boss che forniscono un servizio di sicurezza per conto di azienda in competizione. Sembra una dinamica da criminalità organizzata, più che da scenario di guerra.

Sì, cambiano luoghi e contesti, ma le dinamiche criminali sono le stesse. Lo abbiamo capito dopo che mio fratello Davide si è avvicinato Libera. Abbiamo incontrato Daniela Marcone e Luigi Ciotti, che si sono interessati alla storia di nostro padre.

Ricorda quando le hanno comunicato che suo padre era stato ucciso?

Avevo nove anni. Ricordo che la moglie di un collega di papà era venuta a prendermi a scuola e avevo passato il pomeriggio a giocare con la figlia. La sera, a casa, c’era tutta la famiglia riunita. Mia nonna era scesa a buttare la spazzatura e aveva visto molti giornalisti Rai riuniti. Salita a casa, ha avvertito mia madre che aveva appena ricevuto la telefonata dal direttore del Tg2. Pochi minuti dopo è stata data la notizia in televisione. Per poco non lo hanno appreso dalla tv.

Qual è stata la reazione dei colleghi di suo padre?

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Ci sono stati molto vicini, soprattutto all’inizio. Papà era molto riservato, teneva distinti l’ambito lavorativo e quello familiare. Aveva rapporti più stretti con alcuni colleghi che avevano figli nostri coetanei.

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E la Rai?

Ci fu vicina. La nostra famiglia viveva soltanto dello stipendio di mio padre e dopo la sua morte l’azienda assunse mia madre come sarta, che era ciò che sapeva fare. Certo, negli ultimi anni la storia di mio padre è stata un po’ dimenticata. Quest’anno ci sarà un servizio per ricordarlo.

In che modo la vostra famiglia ha cominciato a impegnarsi per la memoria?

È successo negli ultimi anni, quando io e mio fratello eravamo già grandi. Dopo la morte di papà, la nostra vita è cambiata. Mia madre era giovane, io piccola e mio fratello Davide un adolescente. La consapevolezza ha cominciato a farsi strada quando mio fratello si è avvicinato a Libera, partecipando a un campo estivo. Nel 2016 il nome di papà è stata inserita nella lista delle vittime innocenti. Io mi ero tenuta un po’ in disparte. Poi, alcuni anni fa, ad Avigliana (Torino) c’è stato un incontro dei familiari delle vittime sul tema della giustizia riparativa. Ho sentito alcuni di loro raccontare le loro storie e ho capito: siamo tutte persone che hanno subito un evento traumatico e, dalla condivisione di queste vicende, può nascere qualcosa.

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Lei concretamente in che modo ha trasformato il ricordo in azione?

In vista del 21 marzo scorso, tenuto a Roma, Luigi ha invitato le famiglie delle vittime della zona ad andare nelle scuole per raccontare le loro vicende. È stata come una chiamata e ho fatto il mio primo intervento in una scuola insieme ad Alfredo Borrelli (figlio di Francesco Borrelli, assassinato a Cutro nel gennaio del 1982, ndr). Gli studenti hanno reagito molto bene e sono uscita da lì pensando che c’è una speranza, e ho capito come trasformare la rabbia che avevo in passato in qualcosa di positivo.

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