Fra astrazione e sorpresa: Peter Williams rilegge le Goldberg

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Perché le Variazioni Goldberg si chiamano così? Chi le aveva commissionate? Esiste uno strumento più idoneo a suonarle? Che posto tengono concettualmente nella cosiddetta Clavierübung di cui costituiscono la quarta e ultima parte? Sono solo alcune delle domande da cui parte uno dei più illustri esegeti di Johann Sebastian Bach, quel Peter Williams di cui Astrolabio ha pubblicato (già nel 2019) l’affascinante biografia per la cura di Maurizio Giani e di cui ora Diego Procoli ha tradotto il volume Le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach (Astrolabio, pp. 160, euro 16,00), a vent’anni dall’originale inglese.
Astrazione della forma e vivezza del disegno musicale trovano nelle Variazioni Goldberg un perfetto equilibrio: se ne accorgono anche interpreti ed esecutori, visto che questo lavoro pur così complesso e impegnativo tiene un posto stabile nelle programmazioni e nel repertorio di molti artisti.
Lo sa bene il pubblico romano, che sabato pomeriggio all’interno della stagione IUC potrà ascoltarlo da Angela Hewitt, che ne dà una lettura particolarmente coinvolgente per cantabilità e nitore.

LA FORMA della variazione è solitamente problematica proprio per la sua intrinseca ripetitività: lo schema del tema viene riproposto, nella sostanza, un numero variabile di volte senza riuscire a produrre una forma in divenire. Bach con le trenta Goldberg (e quasi cento anni dopo Beethoven con le trentatré Diabelli) provano a smentire questo limite, passando dalla paratassi alla sintassi. Se Beethoven ripenserà la variazione come una sorta di scala di Giacobbe, in cui dal valzerino un po’ kitsch si sale via via verso l’empireo di arie, minuetti e fughe, Bach si posiziona sull’empireo fin dall’Aria, riuscendo a costringere la sfilata di variazioni in una struttura ricorrente, sì, ma rigorosamente organizzata e in divenire. Che poi la bellissima Aria sparisca letteralmente, come fa notare Williams, rientra nei misteri di questo lavoro: la vera base è il basso, e fin qui niente di strano (anche Brahms cerca sempre nel basso, nelle fondamenta, i semi delle sue maggiori variazioni). Ma la linea di questo basso ha «un lungo pedigree che risale fino ai vari bassi ostinati» già diffusi nel 500; e anche musicisti come Purcell, Händel e altri se ne erano ripetutamente serviti.

LE VARIAZIONI GOLDBERG, però, non sono affatto un basso ostinato: il melodioso articolarsi dell’Aria allunga infatti questa spina dorsale che regge tutto l’edificio e pone i presupposti per un vero scatenarsi della fantasia a ogni nuova variazione: «la lunghezza crea inevitabilmente movimenti pieni, autonomi e separati», ben lontani dall’asciuttezza epigrafica di ciaccona o passacaglia, che Bach aveva già collaudato. Come già altre precedenti composizioni, anche le Goldberg sono un compendio di forme, tecniche, contrappunti sapientemente organizzati: le trenta variazioni sono in realtà dieci triadi, organizzate in modo tale che la prima variazione di ogni gruppo sia più brillante (con vistosi incroci di mani che catturano l’ascoltatore anche visivamente), la seconda segua il principio imitativo del canone, la terza evochi più o meno nettamente una forma di danza, per finire con il festoso quodlibet, che fonde tutti e tre gli elementi: tono brillante, imitazione a canone e persino canto popolare.
Questo libro non sarebbe così limpido e avvincente se Williams si lasciasse troppo prendere dalle considerazioni di struttura, simmetria, allusività che pure lo studio di questo testo dagli infiniti addentellati stimola in lui. Musicista lui stesso, organista e clavicembalista, tanto da aver creato la cattedra di prassi esecutiva all’Università di Edimburgo, trova forse il punto ideale di equilibrio grazie alla sua concretezza di strumentista. Così è un fatto che le Trenta Variazioni diventino 32 brani se contiamo l’Aria e il suo ritorno conclusivo; è un fatto che ogni variazione sia bipartita (in 16+16 battute!) e che anche le 30 variazioni nel loro insieme siano bipartite, essendo la n.16 una vera ouverture in stile francese. Ma lo stesso Williams nota che «l’opera non è un mero schema astratto», e che Bach sembra divertirsi a introdurre una serie di sorprese, capricci, asimmetrie che le impediscono di diventarlo: persino le forme da suite probabilmente non vengono riconosciute come tali dall’ascoltatore.

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A COMPLETARE L’INTERESSE intervengono poi illuminanti considerazioni sulla letteratura musicale che poté instradare Johann Sebastian Bach verso i vertici della Clavierübung, titolo che equivale a dire «esercizio per tastiera»: come gli spettacolari Essercizi di Domenico Scarlatti, usciti a Londra nel 1738, l’anno prima dell’avvio delle Goldberg; mentre le Suites di Händel del 1720, le Pièces de clavecin di Couperin (1722) e di Rameau (1724) avevano già fruttificato nelle sezioni precedenti di questa ‘enciclopedia’ tastieristica.
I risultati di queste conoscenze rimbalzano nelle pagine del libro, discussi e soppesati ancora nel corso delle singole variazioni, che vengono rilette non solo per se stesse, ma anche illuminandone le radici, anticipandone i riflessi postumi e, nelle ultime pagine, confutando alcune recenti riletture delle Goldberg in prospettiva cosmologica o retorica: ipotesi non suffragate da alcuna prova concreta.



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