Nei giorni scorsi sono arrivati due documenti interessanti da Fed e Bce: i verbali dell’ultima riunione del 2024 del Fomc e il primo Bollettino economico del nuovo anno dell’Eurotower. Li abbiamo commentati insieme a Domenico Lombardi, professore di politiche economiche e governance dell’Eurozona alla Luiss, di cui dirige il Policy Observatory.
Cominciamo dai verbali dell’ultima riunione del Fomc, da cui emerge in maniera evidente il timore che l’inflazione negli Stati Uniti non scenda al 2% per i prossimi due anni e che possa addirittura salire nel breve termine.
L’analisi dei verbali mette in luce che la riduzione dei tassi di intervento di 25 punti base avvenuta lo scorso dicembre è stata presa ad ampia maggioranza ma non all’unanimità. L’inflazione, nelle attese dei membri del Fmoc, continuerà sì a stabilizzarsi nel corso dell’anno, tuttavia più lentamente di quanto previsto sino a poche settimane fa.
Il presidente eletto Trump ritiene che un dollaro forte sia un problema per le imprese americane. E tassi di interesse che restassero elevati non farebbero altro che rafforzare il biglietto verde sui mercati valutari. Pensa che, come già avvenuto in occasione del primo mandato, ci potrà essere uno “scontro” tra Casa Bianca e Fed?
Nella campagna elettorale, il presidente Trump non ha sottaciuto la sua preferenza per un maggior allentamento della politica monetaria e, più in generale, di voler commentare le decisioni della Fed. In potenza, questo approccio è destinato a innescare una relazione dialettica con la Banca centrale americana. Che poi possa portare alla riduzione della sua indipendenza ne dubito, poiché essa è sostenuta con forza da Wall Street e dalla tecnocrazia del Tesoro a cui anche Trump si piegherà. Certo, potrà nominare nel Consiglio direttivo governatori a lui vicini – nel primo mandato, per esempio, fu Trump a nominare Powell alla presidenza della Fed, incarico poi riconfermato da Biden, e Chris Waller, economista ampiamente apprezzato. La prossima finestra per l’Amministrazione si aprirà nel 2026, quando scade il mandato della governatrice Kugler, un’accademica esperta di mercato del lavoro. D’altro canto, un disallineamento tra la politica monetaria della Fed e quella delle altre Banche centrali sistemiche – in testa, la Bce – è destinato ad alimentare frizioni sui livelli del cambio bilaterale del dollaro e ad alimentare il dibattito su politiche commerciali restrittive. Va detto, però, che la Bce non ha una politica del cambio per l’euro, che viene determinato dal mercato.
Il Bollettino economico della Bce vede una graduale ripresa dell’economia dell’Eurozona, grazie soprattutto a un aumento dei consumi derivante dall’incremento dei salari reali e dell’occupazione. Il 2025, tuttavia, è iniziato con un rialzo dei prezzi energetici che, se proseguisse, oltre che sull’inflazione, potrebbe avere anche riflessi sull’attività manifatturiera. Rischia, quindi, di venir meno la prevista spinta alla ripresa?
Nell’analisi della Bce, la moderata ripresa nel 2025 viene alimentata dall’aumento dei redditi reali in seguito alla progressiva disinflazione e al graduale aumento salariale. Nel medio termine, tale ripresa dovrebbe essere sostenuta dall’aumento degli investimenti favoriti dal graduale allentamento della politica monetaria. Va enfatizzato che la crescita, che per il 2025 viene prevista all’1,1%, avviene nel contesto di un settore manifatturiero in profonda crisi – in Italia, la produzione industriale è in caduta costante da circa due anni – e dal settore dei servizi in debole espansione. In tale contesto, il rialzo osservato recentemente nell’inflazione era largamente atteso e non ha compromesso le aspettative a medio termine che rimangono, come si dice in gergo, ben ancorate. Del resto, nell’anno in corso la Bce si aspetta una convergenza nell’intorno del target di inflazione di medio periodo pari al 2%.
Una ripresa dell’inflazione negli Stati Uniti potrebbe in qualche modo anche essere “esportata” in Europa?
L’outlook inflazionistico negli Stati Uniti è strutturalmente diverso da quello dell’Eurozona. Nel primo caso, gli analisti si aspettano che le nuove politiche dell’Amministrazione – restrittive sull’immigrazione e sul commercio internazionale – portino a un aumento dell’inflazione. Non dimentichiamo, poi, che l’economia americana è in crescita sostenuta, anzi con la nuova Amministrazione ci si attende un balzo in avanti a fronte di una nuova ondata di deregolamentazione con la politica fiscale che rimane espansiva. L’Eurozona, in contrasto, si trova in una condizione assai diversa e potrebbe peraltro assistere a una “aggressione” di produttori cinesi che, penalizzati nel mercato americano, cercheranno maggiori opportunità di esportazione, anche ribassando significativamente i loro prezzi.
L’aumento dei prezzi energetici potrebbe portare la Bce ad avere un atteggiamento più prudente e, quindi, a ridurre i tassi di interesse in maniera ancora più graduale rispetto a quanto sta facendo?
La dinamica dei prezzi energetici risente di una molteplicità di fattori. Fra questi, occorre considerare che le politiche della nuova Amministrazione americana dovrebbero aumentare l’offerta aggregata di materie energetiche – anche fossili – a livello mondiale ed esercitare un effetto calmierante sui prezzi a parità di condizioni.
Le prossime riunioni del Fomc della Fed (28-29 gennaio) e del Consiglio direttivo della Bce (30 gennaio) sono molto ravvicinate. Si aspetta un taglio dei tassi da parte di entrambe?
Anche in questo caso, l’outlook per le due banche centrali è strutturalmente diverso. Dai verbali della Fed, emerge che nel prossimo incontro di fine gennaio un altro taglio sarà improbabile. I governatori ritengono che, nell’anno in corso, procederanno a soli due tagli – erano, invece, quattro quelli previsti a settembre scorso per il 2025. Incrociando questi dati con le aspettative di mercato desumibili dai mercati derivati, entrambi i tagli si dovrebbero materializzare nel corso del secondo semestre dell’anno. Nel caso dell’Eurozona, invece, le prospettive di crescita rimangono strutturalmente deboli e incerte, mentre le aspettative di inflazione continuano a esser ben ancorate. Ne discende, pertanto, che nulla osta a ulteriori riduzioni, a meno di non volersi accodare a quello che fa la Fed.
Il 2025 è iniziato bene per il collocamento dei titoli di stato italiani, con una domanda record da 275 miliardi di euro per le prime due emissioni. Un segnale del fatto che la fine del programma di riacquisto di titoli di stato della Bce potrebbe non essere problematico per l’Italia? Cosa, invece, potrebbe portare a una frenata di questa forte richiesta di titoli di stato del nostro Paese?
La provvista di fondi viene generalmente effettuata dal Tesoro nella prima parte dell’anno, ma effettivamente la dinamica osservata è andata ben sopra ogni previsione o consuetudine, a maggior ragione che la Bce non alimenta più tale domanda. Riflette, in particolare, la forbice crescente tra rendimenti offerti e rischio percepito in costante riduzione – forbice che ha generato, appunto, una domanda record per i nostri titoli di Stato. È un segnale tangibile di apprezzamento e fiducia nelle politiche del Governo Meloni, di cui i mercati valutano favorevolmente la stabilità e la postura macro-fiscale centrata sulla prudenza.
(Lorenzo Torrisi)
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