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Proteste a Belgrado, Serbia, gennaio 2025 (foto D. Nenadić)

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La protesta, avviata dagli studenti, si sta diffondendo a macchia d’olio in tutta la Serbia grazie all’energia e all’intelligenza dei giovani, innescando cambiamenti. La paura ha cambiato campo e finora questa è la più grande conquista del movimento studentesco. Un commento

“La storia si ripete”, frase che ho sentito spesso ripetere dai miei coetanei negli ultimi tre mesi. Noi, ex studenti, ormai persone di mezza età, che per più di tre mesi avevamo protestato contro i brogli elettorali e il regime di Slobodan Milošević, stiamo sotto vari aspetti rivivendo la nostra giovinezza.

Quotidianamente si alternano sentimenti contrastanti. Gioia, nostalgia, rabbia, delusione, tristezza per aver lasciato ai giovani un paese dove non possono respirare liberamente, tormento perché devono rimediare ai nostri errori.

Da anni ormai sentiamo dire che i giovani sono apatici, disincantati di fronte agli eventi sociali e politici, delusi, egocentrici ed egoisti, che vogliono lasciare il loro paese il prima possibile, che i loro modelli sono tycoon e vip, che sono perditempo e passano la vita a giocare ai videogiochi.

Osserviamo analisi e dati secondo cui i giovani non votano e non si interessano alla politica. Sono anni che li sottovalutiamo, convinti di non meritare di meglio perché li abbiamo delusi. E poi… la bolla della paura scoppia, l’energia dei giovani si mette in moto, facendo erompere la loro saggezza e tenacia. Poi pian piano il ruscello si trasforma in un fiume, il fiume nel mare, il mare nell’oceano.

Per quanto esagerate possano sembrare queste parole, è esattamente ciò che sta accadendo in Serbia.

Per intenderci: questi sono i nostri figli. I figli di noi che negli anni ’90 eravamo ventenni. I giovani cresciuti con le nostre storie sulle proteste studentesche e su come quello (che ironia) sia stato uno dei periodi più belli della nostra vita, i nostri figli che ci hanno visto disillusi e stanchi di una lotta che sembrava vana.

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Sono gli stessi giovani che non potevamo guardare negli occhi e rispondere alle loro domande sul perché studiare e imparare, sul perché essere onesti in un paese corrotto fino al midollo.

Questi giovani non hanno mai conosciuto qualcosa di meglio, le loro vite “coscienti” trascorrono sotto il regime del Partito progressista serbo e del presidente onnipotente, stanno crescendo e diventando adulti con la consapevolezza che troveranno un lavoro solo se staranno zitti o se si iscriveranno al partito al governo.

Molti di noi, i loro genitori, ci siamo piegati. Delusi dal fallimento della lotta in cui avevamo investito la nostra giovinezza, distrutti dopo un breve periodo di vita decente, segnato da una certa libertà e democrazia dal 2000 al 2012, offesi dal comportamento e dall’assenza dell’opposizione, siamo perlopiù rimasti in silenzio.

Ci siamo chiusi nei nostri “piccoli mondi”, con chi la pensava come noi, cercando di rimanere normali nella follia che ci circondava. Sembrava che il regime avesse realizzato l’obiettivo che si era posto, lavorando per più di dieci anni con dedizione e meticolosità per raggiungerlo; ogni critica è stata soffocata, ogni tentativo di rivolta represso.

E poi, apparentemente all’improvviso, la tragedia di Novi Sad ci ha dimostrato che non conoscevamo i nostri figli.

La protesta, avviata dagli studenti e diffusasi a macchia d’olio in tutta la Serbia grazie alla loro energia e intelligenza, sta innescando cambiamenti. La paura ha cambiato campo e questa è finora la più grande conquista del nuovo movimento studentesco.

Sono ben organizzati, avanzano richieste chiare, cogliendo l’essenza della questione: la corruzione diffusa, la criminalità e l’arroganza. Non accettano il gioco in cui un solo uomo decide tutto. E rispondono al presidente in modo chiaro: non sono questioni di sua competenza.

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Per la prima volta, Vučić viene ignorato e non sa come reagire.

Non lasciano che i politici scombussolino i loro piani. Hanno preso le distanze e si tengono alla larga dai partiti di opposizione e da tutti quelli che vorrebbero “trarre vantaggio” dalla loro lotta.

Cercano il sostegno dei cittadini, di tutti i gruppi sociali, e lo stanno ottenendo, conquistando pian piano le fasce della società fino a ieri completamente impenetrabili. Sono determinati, non hanno intenzione di fermarsi.

Non è possibile, anche se il regime ci ha provato, accusarli di essere mercenari al soldo degli stranieri. Non regge nemmeno il discorso secondo cui si tratterebbe di una rivoluzione colorata. In Serbia sono sempre meno le persone che ci credono.

Quando il regime ha tentato di soffocare le proteste accorciando l’anno scolastico, nella speranza che gli studenti tornassero a casa per le feste di Capodanno e Natale per riposarsi, mangiare e festeggiare, questa decisione si è ritorta contro la leadership al potere.

Gli studenti hanno portato la fiamma del malcontento nelle piccole città, raccontando ai loro genitori, amici e vicini quanto stava accadendo a Belgrado, Novi Sad, Niš e in altri centri universitari.

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Così si sono risvegliate anche quelle città che non hanno mai protestato, nemmeno durante le grandi mobilitazioni degli anni ’90. Il regime non sa come rispondere a questa eruzione di energia.

I giovani si sono organizzati in assemblee popolari in tutte le facoltà, collegati orizzontalmente e verticalmente, prendendo decisioni in modo democratico e definendo autonomamente le proprie azioni. Sono tenaci e più intelligenti di noi.

Alcune delle loro azioni ricordano quelle a cui avevo assistito o partecipato da studenti durante quei tre mesi trascorsi nelle strade di Belgrado, nell’inverno del 1996. Penso ad esempio alla marcia studentesca del dicembre 1996 quando un gruppo di studenti di Novi Sad era arrivato a piedi a Belgrado.

Ricordo, come se fosse oggi, la gioia con cui li avevano accolti. Quasi tre decenni dopo, gli studenti delle facoltà di Belgrado hanno intrapreso una marcia per la libertà per esprimere solidarietà e sostegno ai loro colleghi di Novi Sad e per unirsi al blocco dei tre ponti della capitale della Vojvodina.

Anche la mia figlioccia ha camminato fino a Novi Sad. Quella bella ragazza bionda, studentessa brillante con tutti i voti massimi, nata da una famiglia benestante, passo dopo passo, insieme ai suoi colleghi, ha percorso 84 chilometri, mentre i suoi genitori e tutti noi che le vogliamo bene piangevamo pieni di orgoglio.

Una ragazza che riconosce e indica con precisione i problemi della società, li sente in modo organico e legittimamente chiede giustizia e uno stato ordinato. Lei, come tutti gli studenti che ci hanno aperto gli occhi e risvegliato la speranza, gode del nostro sostegno incondizionato. E non solo. Gli studenti godono di un crescente sostegno dei cittadini, indipendentemente dall’orientamento politico.

Mi fermo qui, non faccio più paragoni. È un po’ offensivo tracciare parallelismi tra le nostre proteste e quelle dei giovani di oggi. È su queste ultime che dovrebbe essere focalizzata tutta l’attenzione in Serbia, ma anche altrove.

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I giovani di oggi sono più intelligenti di noi. E meritano di vivere in un paese ordinato, o meglio di rendere ordinato il loro paese, perché noi non siamo stati capaci di farlo.

Perdonateci, giovani, per il fardello che vi abbiamo lasciato in eredità.

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