TRENTO. La sanità italiana è a un bivio: da un lato, riforme ambiziose come le Case di Comunità puntano a rafforzare l’assistenza territoriale; dall’altro, la carenza di medici e le difficoltà nell’attrarre nuovi professionisti rischiano però di trasformare queste strutture in cattedrali nel deserto. A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge il dibattito emerso negli ultimi giorni sulla possibile trasformazione dei medici di medicina generale in dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, un cambiamento che potrebbe rivoluzionare il settore ma che solleva non poche criticità.
Il Trentino, negli ultimi mesi, per arginare le criticità che si stanno registrando in alcune unità operative a causa della mancanza di professionisti, ha deciso di puntare sul personale interno, offrendo un “gettone” ai medici assunti a tempo indeterminato che scelgono di svolgere orari aggiuntivi rispetto al loro normale turno, al fine di coprire le aree più critiche dove manca personale e dove l’Azienda sanitaria non riesce a trovarne. Tuttavia, questa soluzione non risolve il problema alla radice.
“L’impiego del personale strutturato nei reparti critici è una misura tampone che può portare qualche beneficio nel breve termine, ma non affronta la questione in modo definitivo. La vera sfida è rendere questi reparti più attrattivi attraverso condizioni contrattuali migliori, turni sostenibili e un ambiente di lavoro più sicuro” ha spiegato a Il Dolomiti Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, l’organizzazione che da 25 anni si batte, attraverso ricerca, formazione e sensibilizzazione, per tutelare i diritti delle persone, ridurre le diseguaglianze e gli sprechi e contribuire alla sostenibilità di un servizio sanitario pubblico, equo e universalistico.
I problemi strutturali della sanità italiana sono numerosi, a partire dalle carenze di professionisti fino alle misure tampone che, più che risolvere, spostano il problema nel tempo. “Se non si investe adeguatamente nel personale sanitario – avverte Cartabellotta – sempre più professionisti abbandoneranno il Servizio Sanitario Nazionale, aggravando una crisi già in atto.”
Le Case di Comunità rappresentano un cambiamento importante per la sanità territoriale. Una delle figure che dovrebbero farne parte è quella del medico di medicina generale. Tuttavia, oggi sono ancora pochi sul territorio, tanto che alcuni si trovano a gestire oltre 1800 pazienti. C’è il rischio che le Case di Comunità (Hub e Spoke) possano incontrare difficoltà nell’assicurarsi la presenza di questa figura?
La carenza di medici di medicina generale nasce da errori di programmazione che vengono da lontano: in particolare la mancata sincronia tra pensionamenti attesi e numero di borse di studio finanziate, aggravata da politiche sindacali non sempre coerenti. Dopo la pandemia è emersa una minore attrattività di questa professione che, paradossalmente, non ha permesso di assegnare tutte le nuove borse di studio finanziate per il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale. E le soluzioni messe in atto (innalzamento dell’età pensionabile a 72 anni, possibilità per i medici in formazione di acquisire fino a 1.000 assistiti, deroghe regionali sui massimali) sono misure tampone che non risolvono il problema strutturale e sovraccaricano i medici attivi. Questa carenza, inevitabilmente, aumenta il rischio concreto che le Case di Comunità restino strutture vuote o che i medici di medicina generale vi partecipino solo marginalmente, senza integrarsi nei nuovi modelli organizzativi previsti dalla riforma dell’assistenza territoriale voluta dal Pnrr. Anche perché alla carenza di medici si aggiungono le mancate sintonie tra accordi sindacali e obiettivi della riforma: in tal senso le notizie degli ultimi giorni sull’ipotesi di un passaggio alla dipendenza dei medici di famiglia ha creato ulteriori attriti tra Istituzioni e professionisti.
Se dovesse effettivamente arrivare una riforma come quella di cui si sta parlando in questi giorni (pur non essendoci ancora un documento ufficiale, ma con le associazioni di categoria che si sono già espresse al riguardo), che prevede che i medici diventino dipendenti, potrebbe essere una strada giusta?
Il dibattito sulla trasformazione dei medici di medicina generale in dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è aperto da anni e presenta vantaggi e criticità. Da un lato, la loro collocazione all’interno del SSN potrebbe favorire una maggiore integrazione con le Case di Comunità, migliorare il coordinamento con gli altri professionisti sanitari e garantire una maggiore uniformità nell’erogazione delle cure. Dall’altro, il rischio è perdere quella flessibilità operativa che ha sempre caratterizzato la medicina generale, con un eccesso di burocratizzazione e vincoli organizzativi. Ma, indipendente dalla tipologia di contratto, sono i modelli organizzativi regionali sulle cure primarie a condizionare l’attività e i risultati dei MMG.
Un tema rilevante riguarda la carenza di professionisti sul nostro territorio. In Trentino, ad esempio, si sta introducendo un “gettone interno” per il personale assunto a tempo indeterminato che decide di dedicarsi ad alcune ore di servizio in reparti critici (per esempio, il pronto soccorso). Secondo lei, potrebbe essere questa una soluzione efficace? E cosa pensa riguardo al personale sanitario proveniente dall’estero?
L’introduzione di un gettone per il personale strutturato dei reparti critici è una misura tampone che può determinare qualche beneficio a breve termine, ma non risolve il problema alla radice. La vera sfida è rendere questi reparti più attrattivi attraverso condizioni contrattuali migliori, turni sostenibili e un ambiente di lavoro più sicuro. Senza interventi strutturali, il rischio è che queste misure emergenziali diventino permanenti, riducendo ulteriormente l’attrattività di alcune specializzazioni per le nuove generazioni di medici. Per la professione infermieristica, quella gravata al tempo stesso da una gravissima carenza e da una vocazione sempre minore, il ricorso a personale proveniente dall’estero rischia di essere l’unica soluzione a breve termine, ma deve essere gestita con criteri rigorosi. Servono una verifica attenta delle competenze e un percorso di inserimento strutturato, per garantire un’integrazione efficace nel SSN. E, in ogni caso, il ricorso a personale straniero non deve essere una soluzione d’emergenza, ma parte di una strategia di medio-lungo termine per garantire la tenuta del SSN.
Legato a questo tema c’è anche la questione dell’attrattività, messa a dura prova dalle difficoltà quotidiane che alcuni sanitari sono costretti a vivere, tra cui episodi di aggressioni, che sono continuati anche in questo primo mese del 2025. Cosa bisognerebbe fare, secondo lei, per affrontare questo fenomeno?
“Le aggressioni sono un inaccettabile fenomeno in crescita, che mina sicurezza e dignità di professionisti e operatori sanitari. Affrontarlo richiede interventi immediato e incisivo su più fronti. Occorre aumentare i presìdi di sicurezza negli ospedali e nei pronto soccorso, garantendo la presenza di personale dedicato alla gestione delle situazioni a rischio. Parallelamente, servono campagne di sensibilizzazione per far comprendere ai cittadini che medici e infermieri non sono responsabili dei disservizi, ma alleati nella tutela della salute. Tuttavia, il problema non si risolve solo con misure di sorveglianza o comunicazione. Le difficoltà quotidiane dei pazienti, come le attese insostenibili, alimentano frustrazione e tensioni che spesso ricadono sul personale. Migliorare le condizioni di lavoro e l’organizzazione dei servizi è fondamentale per ridurre il rischio di episodi violenti. Se non si investe adeguatamente sul personale sanitario e si rende più attrattiva la carriera nella sanità pubblica. sempre più professionisti la abbandoneranno, o eviteranno i reparti critici, aggravando ulteriormente la crisi del SSN”.
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