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Le attività svolte dal dipendente assente per malattia #adessonews

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Il presente contributo affronta il tema, spesso dibattuto nelle aziende di qualsiasi settore, dello svolgimento, da parte del dipendente, di attività durante l’assenza per malattia, alla luce dei più recenti orientamenti della Cassazione.


1. La malattia giuridicamente rilevante

Nel corso di un rapporto di lavoro subordinato accade di affrontare il tema dello svolgimento di attività (ludica e/o lavorativa) del dipendente durante l’assenza per malattia, in quanto tale condotta, ove illegittima, è suscettibile di determinare effetti disciplinari sul rapporto di lavoro, ivi incluso il licenziamento.

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L’analisi del tema non può che partire dalla nozione di malattia rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 2110 c.c..

La malattia (“che, in deroga ai principi generali, riversa entro certi limiti sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa) è considerata “non come stato che comporti la impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma come stato impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente” (tra le tante, Cass. 13 aprile 2021, n. 9647).

Infatti, la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore è un’ipotesi nettamente distinta dalla malattia, in quanto ha natura e disciplina giuridica diverse (per una fattispecie di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, si veda, ad esempio, Cass. 3 agosto 2018, n. 20497).

La nozione di malattia ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale (sebbene transitoria) incapacità al lavoro; sicchè, ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere le mansioni oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche consentano al lavoratore altre e diverse attività (Cass. 5 settembre 2024, n. 23858).

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Il lavoratore assente per malattia non deve quindi astenersi da ogni attività, anche ludica o di intrattenimento (espressione dei diritti della persona), purché si tratti di attività compatibili con lo stato di malattia e si svolgano in conformità all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare le idonee cautele affinché venga meno lo stato di malattia (Cass. 30 luglio 2024, n. 21351).

2. Considerazioni sull’onere probatorio

Quanto all’onere probatorio in materia di licenziamento disciplinare intimato al dipendente (per lo svolgimento di attività durante l’assenza per malattia), è stato affermato che grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio (per tutte, Cass. n. 23858/2024, cit.).

Sempre con riferimento all’onere probatorio, in un caso analogo, è stato affermato che spetta al dipendente, indubbiamente secondo il principio sulla distribuzione dell’onere della prova, dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, la mancanza di elementi idonei a far presumere l’inesistenza della malattia e quindi, una sua fraudolenta simulazione, e la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando peraltro la relativa valutazione riservata al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto, ma in concreto, con giudizio ex ante” (Cass. n. 9647/2021, cit.).

Prescindendo dalla possibilità di ravvisare (riguardo le precedenti statuizioni) un contrasto sulla ripartizione dell’onere probatorio, si ricorda che tale onere può essere assolto anche mediante “presunzioni”: a tal riguardo, esaminando proprio una fattispecie di licenziamento disciplinare (per svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia), la Suprema Corte ha ribadito il suo costante orientamento, affermando che non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità (basato sull’id quod plerumque accidit), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza (Cass. 4 settembre 2024, n. 23770).

Assolvere all’onere probatorio può essere complicato in considerazione della patologia dedotta dal dipendente, dovendo valutarsi (spesso con l’ausilio di un consulente tecnico) se l’attività svolta possa pregiudicare o, comunque, rallentare la guarigione; ciò si ravvisa, frequentemente, nel caso di patologie di natura neurologica, stante la difficoltà di individuare comportamenti del lavoratore che siano sintomatici di una simulazione della malattia ovvero incompatibili con essa, o comunque forieri di ritardi nella guarigione.

3. Analisi di alcune recenti fattispecie

Come sopra evidenziato, lo svolgimento di attività durante l’assenza per malattia potrebbe configurare una fraudolenta simulazione della stessa, ovvero, ferma restando l’esistenza della malattia, un comportamento del lavoratore comunque rilevante sotto il profilo disciplinare.

Infatti, la Corte di Cassazione è costante nel ritenere che “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (Cass. 26 gennaio 2024, n. 2516).

La valutazione giudiziale ha un esito variabile, dovendo esaminarsi le circostanze del caso concreto; l’accertamento è infatti finalizzato a verificare se il dipendente abbia, o meno, rispettato il dovere di adoperarsi per accelerare la guarigione o, comunque, per non pregiudicarla.

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Al fine di evidenziare la variabilità di tale giudizio, si richiamano due recenti sentenze della Corte di Cassazione, che, nello stesso giorno, si è pronunciata in modo difforme sullo stesso tema.

In una fattispecie, la sentenza di secondo grado aveva ritenuto che la condotta contestata alla lavoratrice (addetta alla mensa di un ospedale) – consistita nello svolgimento, in due giornate durante assenza per malattia (ma non durante le ore di reperibilità), di attività ludica (presso una sala da gioco Bingo) e di spesa (presso un centro commerciale) – non fosse rivelatrice di una malattia simulata, come ritenuto dal datore di lavoro (Cass. 5 settembre 2024, n. 23858).

Rigettando il gravame proposto avverso la sentenza di secondo grado, la Corte di Cassazione ha affermato che le attività della lavoratrice – svolte durante la malattia, al di fuori del domicilio – fossero, per la loro “marginalità”, inidonee a provare la simulazione di malattia, tenuto anche conto che la verifica del datore non riguardava attività svolte durante gli orari di reperibilità.

In un’altra fattispecie, è stato invece evidenziato che la Corte di merito – applicando principi generali a circostanze concrete, di natura oggettiva e soggettiva – aveva correttamente ritenuto “artificiosa” la condotta addebitata al lavoratore perché diretta “tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa, non solo all’assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a partita di calcio già programmata (nell’ambito di campionato regionale), implicante uno sforzo fisico gravoso” (Cass. 5 settembre 2024, n. 23852).

Sempre recentemente, la Corte di Cassazione ha esaminato il caso di un lavoratore licenziato, in quanto, durante l’assenza per malattia, era stato fermato da una pattuglia dei Carabinieri ai quali aveva dichiarato: a) di essere un lavoratore subordinato; b) di essere convalescente; c) di svolgere una seconda attività lavorativa di “tassista in proprio”; il datore di lavoro aveva ritenuto che non esistesse alcun impedimento a rendere la prestazione e che, quindi, il dipendente avesse utilizzato certificati medici “compiacenti” per svolgere altra attività lavorativa (Cass. n. 23770/2024, cit.).

Nel confermare la sentenza di secondo grado, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento (anche se privo di giusta causa), la Corte di Cassazione ha illustrato alcuni possibili parametri da considerare al fine di valutare la gravità dell’inadempimento, tra cui il raffronto tra la patologia dedotta nel certificato medico e l’attività svolta durante l’assenza per malattia, oltre a quello tra la frequenza di tali attività e le mansioni svolte presso il datore di lavoro (Cass. 23770/2024, cit.).

La Suprema Corte ha inoltre recentemente confermato la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore – assente dal servizio a causa di un infortunio, con diagnosi di distorsione del polso destro e della caviglia destra – che in alcune giornate aveva svolto attività fortemente impegnative dal punto di vista fisico (sollevamento e trasporto di pesi) nonché attività ippica (Cass. 21351/2024, cit.).

Ed ancora, sempre recentemente, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore per attività lavorativa svolta in due giorni presso l’esercizio commerciale della coniuge, durante un’assenza per malattia di una settimana (Cass. n. 2516/2024, cit.).

4. Ulteriori considerazioni

E’ utile ricordare che criticità interpretative in sede giudiziale (con i conseguenti riflessi sulla decisione finale) possono riguardare anche valutazioni di natura “formale”.

Ad esempio, la Corte di Cassazione ha evidenziato – riguardo l’eccepita configurabilità, nella contestazione disciplinare, di un giudizio ex post del datore sui concreti effetti negativi del comportamento addebitato al lavoratore (giudizio illegittimo, in quanto contrario ai principi della giurisprudenza di legittimità sopra richiamati) – che la lettura alternativa dedotta dal dipendente aveva sminuito e svilito “il contenuto di altre espressioni, evidentemente considerate più pregnanti dai giudici di merito” (Cass. 30 luglio 2024, n. 21351).

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Tale statuizione dimostra che – al fine di valutare la legittimità di un licenziamento (o di altro provvedimento disciplinare) – assume rilievo anche la formulazione della contestazione.

Sotto un profilo strettamente processuale, con specifico riferimento alla possibilità di contestare una decisione, si ricorda che l’accertamento giudiziale in ordine alla sussistenza, o meno, dell’inadempimento idoneo a legittimare il licenziamento – che consista sia nella fraudolenta simulazione della malattia sia nell’idoneità della diversa attività contestata a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche – si risolve in un giudizio di fatto (riservato al giudice del merito), con i conseguenti limiti di sindacato in sede di legittimità (Cass. n. 23858/2024, cit.).



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