Dalla tassazione alla spesa sociale e alla regolamentazione del lavoro, la “Trumponomics 2.0” sarà la solita politica economica: un approccio devoto al servizio del capitale americano.
Secondo i sondaggi condotti da ABC all’uscita dai seggi, più di due terzi degli elettori americani si dichiarano insoddisfatti della situazione economica lasciata dall’amministrazione Biden. La classe operaia lamenta una riduzione del potere d’acquisto dei salari fino a tre punti percentuali all’anno per tre anni consecutivi.
L’erosione salariale sembra aver avuto un impatto significativo sulle elezioni. Molti lavoratori che in passato avevano votato per i Democratici hanno deciso di non recarsi alle urne o di scegliere Donald Trump.
Il fatto che una parte di quel residuo della classe operaia che ancora si registra per votare si sia allontanata dai Democratici è forse la prova più tangibile del fallimento del partito. Tuttavia, se la loro speranza è che il nuovo presidente migliori le condizioni di vita dei lavoratori, possiamo già dire che sarà disattesa.
Dalla tassazione alla spesa sociale e alla regolamentazione del lavoro, la “Trumponomics 2.0” sarà la consueta politica economica devota agli interessi del capitale americano.
Trump ha insistito per approvare una versione rafforzata del suo “Tax Cuts and Jobs Act,” con cui nel 2017 aveva abbassato l’aliquota massima sui profitti aziendali dal 35% al 21%. Ora vuole ridurla ulteriormente al 15%, con l’applauso dei grandi azionisti di Wall Street. Inoltre, il nuovo presidente ha annunciato tagli significativi alla tassazione federale sugli straordinari e sulle pensioni più consistenti.
Secondo il Committee for a Responsible Federal Budget, i minori introiti derivanti potrebbero causare un buco fino al 30% nel bilancio della Social Security. Questo rispecchia un altro obiettivo chiave di Trump: ridurre ulteriormente il sistema di welfare pubblico, puntando a restaurare il dominio assoluto delle assicurazioni private.
Per sostenere i consumi della classe operaia, Trump ha riproposto una soluzione molto amata dai grandi finanzieri: misure fiscali per dimezzare i tassi d’interesse sulle carte di credito e abbassare il costo dei prestiti per l’acquisto di elettrodomestici, auto e case. Una possibile attuazione prevede che le banche ricevano agevolazioni fiscali se riducono le commissioni per i consumatori indebitati.
Con questo obiettivo in mente, non è un problema allentare i vincoli per una nuova esplosione del debito: Trump è deciso a rimuovere gli ultimi legami regolamentari che tengono sotto controllo la finanza. In molti aspetti, le sue politiche sembrano un ritorno agli anni ruggenti prima della crisi del 2008. La bolla speculativa che gonfia l’economia statunitense si espanderà ulteriormente prima di scoppiare. Alla fine, lascerà i lavoratori nella polvere, in bancarotta.
In questo cupo scenario di dominio del capitale, c’è chi sostiene che almeno la classe operaia possa rallegrarsi per il fermo annunciato all’immigrazione. In realtà, i dati mostrano che i migranti vanno dove l’economia cresce. Questo significa che l’afflusso di lavoratori stranieri non è causa del peggioramento dell’occupazione e dei salari locali, ma piuttosto una conseguenza del loro miglioramento. L’ideologia xenofoba continua a vincere alle urne, ma perde costantemente quando viene messa alla prova delle evidenze scientifiche.
Le speranze dei presunti tribuni del popolo nel campo pro-Trump si fondano anche sul rilancio dell’isolazionismo economico statunitense. La retorica trumpiana dell’“America first” è focalizzata sul blocco delle importazioni e sul tentativo di riportare gli impianti produttivi delle multinazionali sul suolo statunitense per rimediare alla crisi occupazionale nelle aree interne.
A un’analisi più attenta, però, i dati mostrano che il protezionismo di Trump non è affatto un’idea nuova. Da Obama a Biden, le amministrazioni statunitensi hanno innalzato sempre di più le barriere commerciali e finanziarie per oltre 15 anni. Questo è ciò che il segretario del Tesoro uscente ha definito “friend shoring”: fare affari solo con gli “amici” e tenere lontani i “nemici,” specialmente se sono creditori degli Stati Uniti.
Trump sta semplicemente gridando ai quattro venti una strategia di divisione dell’economia mondiale in blocchi contrapposti che è stata adottata anche da altri presidenti, sebbene con più discrezione. Si tratta di un indubbio favore per i proprietari di imprese statunitensi, che temono sempre più le incursioni del capitale orientale negli Stati Uniti e nelle aree del mondo sotto controllo americano. Quanto agli straordinari risultati promessi per i lavoratori locali, finora non sembrano essersi concretizzati.
Qualcuno potrebbe obiettare che, almeno, Trump stia perseguendo una strategia orientata alla pace, sebbene appaia cinica: lasciare alla Russia i territori occupati e porre fine alla guerra in Ucraina. In realtà, con questa possibilità il nuovo presidente mira a resuscitare un vecchio obiettivo di Nixon: dividere Russia e Cina per preservare l’egemonia americana nel mondo.
La differenza è che Nixon cercava di fare accordi con i cinesi per isolare la Russia sovietica, mentre oggi Trump vuole fare accordi con i russi per isolare la Cina. La sua idea è che i cinesi rappresentino la vera minaccia al primato economico americano, e che le barriere, le sanzioni e le armi degli Stati Uniti debbano essere puntate specificamente contro di loro. Non si tratta davvero di un’agenda “pacifista” quanto di un altro tassello verso l’escalation militare globale.
* da il manifesto
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