Analfabeta ci sarà lei… ma ci sei o ci fai? – Consulenza Linguistica

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In questa scheda si risponde a domande che riguardano due espressioni particolari: la risposta “Ci sarai te!” o “Ci sarà lei!” a una presuntaoffesa, e la domanda “Ci sei o ci fai?” posta a commento di ciò che si ritiene un’affermazione o un comportamento poco intelligente o non del tutto trasparente.

Risposta

Alla Consulenza dell’Accademia sono giunte domande che riguardano forme di risposta come quella che si ritrova qui nella prima parte del nostro titolo (“Analfabeta ci sarà lei”). Tra gli esempi che sono stati inviati ritroviamo i seguenti: “Sei un ignorante!” “Ignorante ci sarai tu!”; “Bella” “Bella ci sarai tu!”

Questa costruzione ha un carattere tipico di risposta polemica che restituisce l’offesa a chi l’ha formulata. Come mostrano bene gli esempi, la sua struttura si basa sulla ripresa dell’aggettivo o del nome usato con valore predicativo dall’altra persona a cui si fa seguire ci + essere + pronome allocutivo rivolto all’interlocutore (quindi tu, lei o voi). Nel secondo degli esempi citati qui sopra si potrebbe pensare che bella sia formulato come complimento (dato che si tratta di solito di un aggettivo di carattere positivo), ma la reazione della persona alla quale viene rivolto fa chiaramente capire che il presunto complimento non viene affatto gradito o condiviso. Trovare esempi simili in vari canali (Internet, radio, televisione, ecc.) non è difficile e si può dire che questa possibilità di risposta ha acquisito negli ultimi decenni una forte popolarità. Per avere una conferma della sua diffusione basta per esempio fare una ricerca in Google con stringhe contenenti alternative come “Cretino/stupido/idiota/imbecille/mafioso/disonesto/puttana/figlio di puttana/ecc. ci sarai/sarà/sarete… tu/lei/voi”. Il verbo essere compare nelle forme del presente indicativo o del futuro (“Cretino ci sarai tu”; in verità si tratta del tipico uso del futuro con valore modale e non temporale).

Chi si è rivolto alla Crusca chiede se questa costruzione sia corretta e, in caso di risposta positiva, se possa essere usata solo nella lingua parlata o anche in quella scritta. È interessante notare che tra chi si informa sulla correttezza della forma vi sono persone che dicono di usarla e di essere stati per questa ragione criticati da altri, e persone che dicono di averla sentita usare da altri e di non ritenerla corretta. Ciò ci dice che per le prime persone essa è perfettamente normale, mentre per le seconde essa non è consueta.

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Passando alla discussione del caso, è indubbio che la particolarità che crea dubbi è la presenza di ci. Non ci sarebbe infatti nulla da ridire su una risposta del tipo “analfabeta sarà lei”, che rispecchia perfettamente la struttura dello standard. Una prima ipotesi ingenua riguardo alla presenza di ci potrebbe essere che abbiamo a che fare con forme del verbo procomplementare esserci, i cui valori principali sono quelli di ‘esistere, sussistere, essere presente’. È subito chiaro però che una spiegazione di questo tipo presenta notevoli difficoltà, come per esempio il fatto che al posto di essere si può ritrovare anche il verbo diventare. Le stesse difficoltà si riscontrano per un’altra pista ingenua che a priori potrebbe sembrare possibile, ovvero quella che ipotizza che ci mantenga il suo valore locativo e significhi in questi contesti qualcosa come ‘nel luogo di cui si parla’.

Se torniamo invece alle possibilità chiaramente acclimatate nello standard, dobbiamo far notare che, accanto alla soluzione già citata sopra, ne ritroviamo un’altra con il pronome lo, come in “analfabeta lo sarà lei”. La domanda che a questo punto nasce è se il nostro ci non possa essere un’alternativa regionale di lo. Anche il fatto che tra le occorrenze di questa struttura si ritrovino esempi in cui ci è sostituito da ce può sostenere questa ipotesi e, in effetti, il fenomeno è stato discusso per il romanesco (e per la varietà romana) da specialisti come Paolo D’Achille e Michele Loporcaro. Quest’ultimo, nel suo saggio Osservazioni sul romanesco contemporaneo (apparso nel volume Le lingue der monno, a cura di Claudio Giovanardi e Franco Onorati, Aracne editore, Roma, 2007), mostra sulla scorta di vari esempi (che illustrano pure che questa costruzione non è limitata al verbo essere) come “Al lo dell’italiano standard […] il romanesco risponde con ce”. Questo ce (e la sua forma italianizzata in ci) sostituisce quindi alcuni degli usi di lo, ovvero quelli (detti propredicativi) in cui la particella in questione “sostituisce sintagmi nominali o aggettivali in funzione predicativa”. Come ben mostra Loporcaro, nel romanesco ciò succede in modo categorico, dato che in questa varietà lo propredicativo non si ritrova e ce è l’unica soluzione possibile.

D’Achille, nel suo saggio Romanesco ce diventerà vs italiano lo diventerai? (pubblicato nel volume Romanice loqui. Festschrift für Gerald Bernhard zu seinem 60. Geburtstag, a cura di Annette Gerstenberg, Judith Kittler, Luca Lorenzetti e Giancarlo Schirru, Tübingen, Stauffenburg Verlag 2017) segnala apparizioni del fenomeno che risalgono fino alla metà del Seicento.

Tenendo presente l’influsso che la varietà romana ha sulla lingua comune, soprattutto in usi espressivi (come nel nostro caso di risposte a insulti), è perciò altamente plausibile che questa costruzione si sia diffusa da Roma al resto dell’Italia che non la conosceva ancora, indipendentemente dal fatto che essa possa essere esistita già in alcune regioni (Gerhard Rohlfs, per esempio, nella sua Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, alla fine del paragrafo 455, segnala che in abruzzese “il pronome accusativo può essere sostituito da ci” e fornisce un esempio che traduce nel modo seguente: “lui è buono, ma tu non lo (ci) sei”; cfr. Rohlfs 1968).

D’Achille nel suo saggio prende posizione pure riguardo al posizionamento rispetto alla norma di questo fenomeno, affermando: “potremmo forse considerare questo ci propredicativo, finora mai segnalato (almeno a quanto mi risulta), come un tratto del substandard attuale e non come un tratto esclusivamente romano/romanesco”. Si tratterebbe quindi sì di un tratto oramai diffuso in tutta Italia (e presente anche in alcuni usi scritti), ma che si colloca ancora al di sotto della soglia dello standard. D’Achille osserva inoltre che “Non registra s.v. ci il valore propredicativo nemmeno il GRADIT, che pure accoglie nel lemmario vari verbi ‘procomplementari’ formati con ci di matrice regionale (romana)”. Riprendendo inoltre un argomento importante della trattazione di Loporcaro, si deve notare che questo ci segue regole sintattiche del romanesco che sono in contrasto con quelle dell’italiano e quindi non fa parte della norma dell’italiano.

Per queste ragioni, la risposta riguardo alla correttezza è chiara per quanto concerne la situazione attuale e bisogna dire che questa costruzione è utilizzabile solo in contesti e registri informali (anche scritti, come quelli che caratterizzano parte della comunicazione ad alto carattere dialogico ed espressivo di internet) essendo consapevoli che è in contrasto con le regole della lingua.

Dato che le lingue sono, come si sa, sempre in movimento e possono cambiare le loro regole e le loro norme, l’altra domanda che si pone riguarda la possibilità che in futuro questa struttura possa diventare normale ed entrare quindi a far parte dello standard.

Innanzitutto dobbiamo distinguere tra la diffusione della struttura specifica con carattere idiomatico di cui ci stiamo occupando qui (con il suo carattere particolare di reazione polemica a un’offesa) e una diffusione generalizzata di ci per lo propredicativo. Il primo fenomeno ha una forte componente di carattere lessicale e tocca solo in parte le regole sintattiche generali (quindi il secondo tipo di fenomeno). Al momento attuale, a quanto mi risulta, è presente nell’italiano non romano solo nel costrutto fin qui discusso (del tipo “analfabeta ci sarà lei”) e in un’altra struttura idiomatica altrettanto ben nota, quella del tipo “ci sei o ci fai”, dove ritroviamo esattamente lo stesso tipo di ci con valore propredicativo: in effetti la traduzione corretta di questa espressione è “lo sei o lo fai”. È vero che da singole strutture idiomatiche possono svilupparsi regole sintattiche generalizzate, ma in questo caso mi sembra che si sia ancora molto distanti da una generalizzazione di ci per lo nell’italiano comune e si debba perciò collocare su tempi lunghi la verifica della seguente affermazione di D’Achille: “Non è però improbabile che il ci propredicativo possa in futuro trovare ulteriore spazio nell’italiano, anche grazie alla diffusione nazionale dell’uso romano”. Si deve inoltre tener presente che i due costrutti appena citati devono parte del loro successo all’essere sentiti come particolari e quindi più efficaci per scopi espressivi. Mantenere la variante romana nella grafia e nella pronuncia, usando ce invece di ci (e corrispondentemente di te per tu), avrebbe reso più esplicito che si tratta di un prestito che segue le regole di un altro sistema (che in questo ambito specifico è in contrasto con le regole dell’italiano), ma oramai le due strutture in questione sono così diffuse nella loro forma italianizzata che un ritorno alla variante romana non è realistico.

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Un altro aspetto che andrebbe approfondito è quello se tutti i parlanti analizzino le due strutture idiomatiche in questione allo stesso modo. Se per il caso del tipo “analfabeta ci sarà lei” una reinterpretazione di ci è più difficile, per il caso di “ci sei o ci fai”, si potrebbe pure pensare che alcuni parlanti sentano “ci sei” come esistenziale o di presenza (si trovano per esempio in Internet enunciazioni come “Dio c’è o ci fa?”, che giocano ovviamente con la lettura esistenziale di esserci). Riguardo invece a farci è interessante osservare che il GRADIT lo registra come verbo procomplementare (definito come “Regionale, centrale”) che nel primo dei suoi due sensi avrebbe il valore di “far finta di non capire”, illustrato nel vocabolario proprio dall’unico esempio “ma ci sei o ci fai?” (l’altro senso è quello di “approfittare bassamente di una situazione”). Far finta è in effetti anche la parafrasi esplicativa che più di frequente si ritrova in gruppi di discussione in Internet e questo fa pensare che il valore complessivo colto dal GRADIT di verbo procomplementare (corrispondente proprio a far finta) abbia oscurato il valore originale di ci equivalente all’italiano lo e avente un riferimento propredicativo specifico (come in “stupido ci sei o ci fai?”, che dovrebbe essere tradotto come “sei stupido o fai lo stupido?”).

Un’estensione degli usi, che mostra un allargamento del valore originale, la si potrebbe ritrovare anche nel caso di “ci sarai tu”, per il quale accanto alla forma di risposta a un’offesa si ritrovano reazioni metalinguistiche a qualcosa che è stato detto da un’altra persona, senza che si tratti di un insulto rivolto a chi reagisce. In rete compare per esempio un video intitolato Preparativi ce sarai te, dove si mostra un gruppo musicale che si prepara probabilmente per un concerto. La struttura “X ce sarai te” diventa in questo modo una forma di negazione forte di ciò che qualcun altro ha detto, senza che si tratti di un’offesa diretta.

Per concludere vale la pena di menzionare il fatto che alla Consulenza dell’Accademia sono giunte pure domande dirette relative al tipo “ci sei o ci fai”. Accanto a chi chiede quale sia il valore di ci, domanda alla quale abbiamo risposto sopra, non mancano curiosità riguardo a quale sia la grafia corretta di ci davanti alle forme di essere inizianti per vocale. In breve, come scrive una lettrice, “è meglio dire ci è o ci fa oppure c’è o ci fa?”

Se rispondiamo basandoci sulla prassi dei parlanti e scriventi, dobbiamo dire che si ritrovano negli usi effettivi entrambe le soluzioni e dal nostro punto di vista possiamo menzionare buone ragioni sia per l’una che per l’altra. Innanzitutto l’elisione della vocale di ci è richiesta in italiano per le forme del verbo esserci (“c’è un gatto”). Perciò potremmo operare allo stesso modo nel nostro caso, anche se, come abbiamo visto non abbiamo veramente a che fare con forme di esserci. È interessante inoltre osservare che pure nella varietà romana, nonostante il contatto avvenga tra due occorrenze della vocale e non si ritrova sempre (almeno nelle fonti scritte che ho potuto consultare) l’elisione, che è invece obbligatoria nel dialetto romanesco (in cui troviamo ce e non ci).

Dall’altro lato il mantenere la vocale di ci permetterebbe di esplicitare formalmente la distinzione tra i due valori differenti delle forme altrimenti omofone “c’è” (con il valore di esserci) e “ci è” (con il valore visto sopra di “lo è”). Se teniamo presente che nel caso di un altro valore di ci, quello di pronome di prima persona plurale (in casi come “Giovanni ci è amico” o “Giovanni ci aspetta”), l’elisione non viene fatta (almeno nello scritto), abbiamo un altro argomento per sostenere il mantenimento della vocale. Ma al di là di quelli che possono essere i ragionamenti di questo genere (in base ai quali, a mio parere, si potrebbe preferire questa seconda soluzione), il fatto che oramai entrambe le forme siano ritrovabili in misura all’incirca uguale ci deve far dire che un tentativo di normativizzazione dall’alto (da parte di un’accademia o di grammatici) giunge troppo tardi e avrebbe inoltre troppo poco potere per imporsi. Solo i comportamenti futuri dei parlanti potranno eventualmente eliminare una di queste due soluzioni a favore della categoricità o quasi dell’altra.

Bruno Moretti

13 gennaio 2025

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