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Una donna incarica un conoscente di raccogliere la frutta dal suo albero di susine e di trattenerne per sé la maggior parte come compenso. L’uomo appoggia la scala su un ramo secondario che, non reggendo il peso, cede e il malcapitato cade rovinosamente riportando molteplici lesioni. L’uomo agisce in giudizio contro la proprietaria del giardino, prospettando diverse ricostruzioni. In primo luogo, deduce la sussistenza di un rapporto di lavoro con la conseguente violazione delle norme sulla sicurezza (ex d.lgs. 81/2008) e, poi, invoca la responsabilità ex art. 2051 c.c.

Il custode risponde del danno se l’evento è conseguenza esclusiva del comportamento imprudente del danneggiato?

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza 21 maggio 2024, n. 14041 (testo in calce), risponde negativamente. I giudici di legittimità ricordano che la responsabilità per danno da cose in custodia ha natura oggettiva e il custode, per liberarsi, deve allegare il caso fortuito, che può consistere nel fatto naturale, del terzo ma anche nella condotta del danneggiato. Nel caso di specie, è stato accertato che l’uomo si sia appoggiato ad un ramo non saldo, inidoneo a sostenere il suo peso e quello della scala, quest’ultima posizionata in prossimità di una rampa ove era maggiore il rischio di precipitare.

Un simile comportamento appare gravemente negligente anche in considerazione della circostanza che il danneggiato conosceva il luogo per avervi raccolto la frutta in passato e per essere aduso allo svolgimento di lavori di particolare pericolosità (essendo un operaio edile).

La giurisprudenza ha più volte chiarito che la condotta del danneggiato deve essere valutata tenendo conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà ex art. 2 Cost. Pertanto, più la situazione di danno è suscettibile di essere prevista e superata usando le normali cautele, maggiore è l’incidenza causale del comportamento imprudente del danneggiato che può giungere sino al punto di essere la causa esclusiva del danno.

La decisione è interessante anche sotto un altro profilo. Il danneggiato sostiene che, avendo prestato la propria opera a favore del committente, spettasse a quest’ultimo assicurare il rispetto delle disposizioni sulla sicurezza sul lavoro. Al contrario, secondo i giudici di legittimità, gli obblighi di prevenzione e sicurezza – come usare attrezzature conformi e munirsi di dispositivi di protezione individuale – sono a carico dei lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ex art. 2222 c.c. e non del committente (art. 21 d.lgs. 81/2008). Pertanto, gravava sul prestatore d’opera (il ricorrente) l’onere di provvedere alla propria sicurezza e non sul committente (la proprietaria del giardino).

Danno e Responsabilità, di Autori AA. VV., Ed. IPSOA, Periodico. Problemi di responsabilità civile e assicurativa e tematiche del risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
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La vicenda

La proprietaria di un terreno incarica un conoscente di raccogliere la frutta dal proprio albero di susine e di trattenerne per sé la maggior parte come compenso. L’uomo inizia la raccolta, appoggia la scala su un ramo secondario che, sotto il suo ingente peso, cede e ne provoca la rovinosa caduta. In seguito alle numerose lesioni riportate, il malcapitato evoca in giudizio la proprietaria del fondo al fine di ottenere il risarcimento del danno. L’attore chiede il ristoro del danno patrimoniale e non patrimoniale ed invoca la disciplina sugli infortuni sul lavoro; in via principale, chiede l’accertamento della natura subordinata del rapporto, in subordine, il riconoscimento della natura autonoma del rapporto e, in estremo subordine, l’accertamento della responsabilità ex art. 2051 c.c. In primo e secondo grado, viene negata la natura subordinata del rapporto e si esclude la responsabilità della convenuta per la violazione delle previsioni del d.lgs. 81/2008. Infine, i giudici di merito ritengono che l’infortunio sia stato cagionato dalla condotta gravemente imprudente dell’attore tale da integrare il caso fortuito.

Si giunge così in Cassazione.

Premessa: la responsabilità per danno da cose in custodia

I giudici di legittimità ribadiscono la propria giurisprudenza in materia di responsabilità per danno da cose in custodia (Cass. SS. UU. 20943/2022).

Innanzitutto, ricordano che l’art. 2051 c.c. prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva e il criterio di imputazione della responsabilità prescinde dalla colpa di chi ha il governo della res. Infatti, «il custode negligente non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente se la cosa ha provocato danni a terzi» (Cass. 15383/2006). Pertanto, il danneggiato deve dimostrare il nesso causale tra la cosa (nel nostro caso, l’albero) e l’evento di danno (le lesioni), a prescindere dalla pericolosità intrinseca della res. Da ciò discende che eventuali omissioni o violazioni di regole, anche di comune prudenza, da parte del custode rilevano solo ai fini dell’art. 2043 c.c. Le suddette deduzioni possono assumere rilievo ex art. 2051 c.c. solo se dirette a dimostrare lo stato della cosa e la sua idoneità ad arrecare danno. Invece, spetta al custode (nel nostro caso, la proprietaria del giardino) fornire la prova liberatoria, ossia la dimostrazione dell’estraneità dell’evento alla sua sfera (che non coincide con la dimostrazione dell’assenza di colpa). Egli, infatti, può liberarsi dalla responsabilità solo provando il caso fortuito. Quest’ultimo può consistere in un fatto naturale o del terzo o del danneggiato ed è caratterizzato dall’imprevedibilità ed inevitabilità «da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode». Per quanto attiene alla condotta del danneggiato, essa integra il caso fortuito solo se connotata dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento. In caso contrario, può essere valutata sotto il profilo del concorso di colpa ex art. 1227 c.c.

Riassumendo, il meccanismo probatorio contenuto nell’art. 2051 c.c. postula che:

  • la prova del nesso eziologico tra la cosa custodita e il danno sia fornita dal danneggiato;
  • la prova dell’interruzione del nesso causale ad opera del caso fortuito sia data dal custode;
  • la diligenza (o meno) di quest’ultimo sia priva di rilievo.

Ciò premesso, torniamo al decisum.

La condotta imprudente del danneggiato può integrare il caso fortuito

Il ricorrente censura la decisione gravata laddove afferma che la sua condotta imprudente sia stata la causa esclusiva del danno, infatti, secondo la sua ricostruzione, non era prevedibile che il ramo si sarebbe spezzato e, al più, occorreva considerare la possibilità di un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.

La Suprema Corte considera infondata la doglianza.

Infatti, dall’istruttoria era emerso che l’uomo era aduso allo svolgimento di attività di una certa pericolosità, essendo un operaio edile, quindi, era ragionevole attendersi l’uso della normale prudenza nell’appoggiare la scala sull’albero. Il ricorrente, essendo di corporatura robusta, avrebbe dovuto fissare la scala ad un ramo che potesse reggere il suo peso e quello della scala. Inoltre, in passato, l’uomo aveva già raccolto la frutta nell’orto della convenuta, dunque, era a conoscenza dello stato dei luoghi e delle caratteristiche delle piante. Infine, aveva appoggiato la scala, senza alcuna cautela, anche in considerazione del fatto che, da quel lato, era presente una rampa e il rischio di precipitare era più alto.

L’art. 2051 c.c. impone un dovere di precauzione al titolare della signoria sulla cosa custodita, in funzione di prevenzione dei danni che da essa possono derivare; del pari, impone un equivalente dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa, in virtù del principio di solidarietà (art. 2 Cost.), che obbliga il soggetto ad adottare «condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per i terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile» (Cass. 17443/2019). Inoltre, l’art. 1227 c. 1 c.c. «impone al giudice di merito di esaminare d’ufficio l’eventuale incidenza causale del comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso» (Cass. 8306/2024). Pertanto, quanto più la situazione di danno poteva essere evitata adottando le normali cautele richieste delle circostanze, tanto più incidente è il grado di efficienza causale della condotta del danneggiato. Tale incidenza può arrivare al punto di interrompere il nesso eziologico tra il fatto e l’evento dannoso e connotarsi come causa esclusiva di produzione del sinistro. Il giudice di merito deve valutare, anche d’ufficio,la rilevanza causale, concorrente o esclusiva, della condotta del danneggiato o di un terzo nella causazione dell’evento.

La colpa del custode è irrilevante nella valutazione ex art. 2051 c.c.

Secondo il ricorrente, spettava alla proprietaria del giardino prevedere la possibilità di una caduta e, pertanto, gravava su di lei l’onere di adottare ogni cautela idonea a prevenirla, fornendo all’uomo i necessari dispositivi antinfortunistici.

La Suprema Corte considera infondata la censura atteso che, in materia di responsabilità per danni da cose in custodia, non assume alcun rilievo la colpa del custode e non vengono in considerazione le disposizioni in materia di prevenzione sugli infortuni sul lavoro (così punto 8.1 della decisione). Nel caso di specie, i giudici di merito hanno accertato, in fatto, che la condotta della vittima abbia integrato il caso fortuito, giacché ha rivestito efficienza causale autonoma ed esclusiva nella produzione dell’evento. La condotta del danneggiato è stata valutata alla luce del generale dovere di cautela che ogni consociato deve adottare in virtù del principio di solidarietà previsto dalla Carta costituzionale (Cass. 2480/2018). Pertanto, quanto più la situazione è evitabile usando le normali cautele che si adottano in circostanze analoghe, quanto più deve considerarsi rilevante l’efficienza causale del comportamento imprudente nel dinamismo causale del danno.

I giudici di merito hanno ritenuto che la condotta del ricorrente sia stata gravemente imprudente e da sola sufficiente a causare l’evento. Il percorso argomentativo seguito dalla sentenza gravata è logico e coerente. I giudici, infatti, non hanno rilevato la ricorrenza di altri elementi che possano aver inciso nell’eziologia dell’accaduto.

Conclusioni: spetta al prestatore d’opera provvedere alla propria sicurezza

Il ricorrente sostiene che il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro operi anche in relazione al committente privato.

La Suprema Corte rileva come la decisione gravata abbia escluso la natura subordinata del rapporto e abbia confermato la tesi secondo cui gli obblighi di prevenzione e sicurezza, come usare i dispositivi di protezione individuale e attrezzature conformi (ex art. 21 d.lgs. 81/2008), siano posti a carico dei lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ex art. 2222 c.c., dei componenti dell’impresa familiare e dei piccoli commercianti.

Pertanto, era il ricorrente stesso che avrebbe dovuto provvedere alla propria sicurezza.

In conclusione, per tutte le ragioni sopra esposte, il ricorso del danneggiato viene rigettato, l’uomo è condannato al pagamento delle spese di lite oltre alla corresponsione di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13 comma 1-quater DPR 115/2002, se dovuto.

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