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È la signora della filantropia, Carola Carazzone. Con un lungo background di impegno e di lavoro sociale, in Italia e all’Estero, guida dal 2014, come segretaria generale, l’Associazione italiana degli enti e delle fondazioni filantropiche, Assifero. Con la sua direzione questo vivace rassemblement di fondazioni familiari e di impresa è cresciuto in consapevolezza del proprio ruolo nel Paese e internazionale, tanto che le fondazioni del mondo corporate di nuova generazione, sorte negli scorsi anni, non hanno esitato ad affiliarvisi.

Torinese, classe 1974, Carazzone è anche molto apprezzata negli ambiti della filantropia internazionale – è vicepresidente della europea Philea – e infatti la incontriamo, in teleconferenza, in un passaggio veloce dall’Italia, reduce dal raduno austriaco di Alpbach, il forum internazionale in cui si sono incontrati i leader degli enti donatori di mezzo mondo.

Anche lei ha letto l’intervento Felice Scalvini (tra l’altro primissimo presidente di Assifero) su VITA, a proposito della necessità, per il mondo filatropico, di sostenere il non profit anche per la ricerca di personale, il people raising, dinnanzi a una difficoltà a trovare profili adeguati per le proprie organizzazioni che comincia a diventare problematica. La direttora di Assifero però non si sofferma solo sul ruolo che gli enti filantropici potrebbero assumere ma ragiona anche su questa scarsità di capitale umano che forse bisognerebbe cominciare a chiamare crisi.

Carola Carazzone, segretario generale di Assifero

Carazzone, il non profit fatica ormai da tempo a trovare personale idoneo alle crescenti sfide. Un uomo che ha militato per una vita nella cooperazione sociale e nel Terzo settore, come Scalvini, invita la filantropia a scendere in campo. Da dove cominciamo?

Guardi, io sono convinta che le organizzazioni siano fatte persone e che siano le persone e le organizzazioni a raggiungere le cause. Quindi io non riesco proprio a concepire quanto viene investito, dedicato, finanziato nelle organizzazioni, alle persone come “nemico della causa”.

Sì, a volte dedicare risorse alle persone sembra quasi volerle distogliere dalle cause.

Per me investire sulle persone è proprio un veicolo, il veicolo principale, per raggiungere le cause che ci stanno a cuore. Questo vale per ogni ong, ogni ente del Terzo settore, ogni fondazione ha la propria. Quindi questo, per me, è stato un enorme, enorme fraintendimento che il mondo del non profit e del Terzo settore si porta dietro da 40 anni.

Un problema datato, lei dice.

Quando alla fine degli anni ’80, è nato l’idea di professionalizzare, di uniformare, di consentire una maggiore professionalizzazione o un maggior monitoraggio, verifica, valutazione dei risultati eccetera, c’è stato un enorme fraintendimento. Ha portato a pensare che praticamente tutto dovesse essere dedicato alla realizzazione delle attività, quindi a ottenere dei Kpi (key performance indicators, gli indicatori chiave di prestazione, ndr) e degli output, senza però investire nelle persone e nelle organizzazioni stesse. Questo ha fatto sì – forse mi ripeto, però veramente ci credo con tutta me stessa – che il contenimento dei costi di struttura, così all’osso, abbia poi provocato il famoso “ciclo della fame” delle organizzazioni del Terzo settore, nel lungo periodo.

Con quali conseguenze?

Questo sotto-investimento cronico delle organizzazioni ha portato a far sì che oggi siano anche poco attrattive per i giovani e poco attrattive per i talenti. Non è possibile chiedere di fare internship gratis. Per me è un problema di giustizia intergenerazionale. Ci si appanna col fatto che noi, i vecchi, quelli di 50 anni, eravamo disposti a buttare il cuore oltre l’ostacolo. Siamo la generazione che, guardando i giovani, dice: “Ah voi siete tutti dei viziati, degli sdraiati perché noi eravamo disposti a sacrificarci, a buttare il cuore, a fare”.

Lei non è d’accordo.

Io veramente lo trovo molto arrogante, anche un po’ ignorante come atteggiamento, perché comunque ma cosa ne sai di chi hai davanti? Se tu hai dei ragazzi che non possono permetterlo, che non sono figli di papà, ma perché deve essere questo il modus operandi generalizzato? Se vogliamo davvero essere capaci di attrarre i talenti, dobbiamo pagare uno stipendio decente a queste persone, perché non sono tutti famiglie di famiglie abbienti, che possono permettersi di stare fino a 30 o 35 anni a fare gavetta. Sono ragazze e ragazzi che hanno l’esigenza di uno stipendio giusto, perché nessuno di loro vuole arricchirsi lavorando nel Terzo settore, ma è una questione veramente di giustizia intergenerazionale. E trovo problematico il fatto che i leader del Terzo settore del nostro Paese siano così agés, siano così nella stessa posizione da 25, 30 anni.

Assifero cosa fa?

A luglio abbiamo fatto con Social Change School e con Ashoka, un piccolo un evento in Assifero cercando di portare il tema del “succession planning”. È fondamentale! Perché abbiamo tutti i leader che sono super anziani e che possono continuare a fare delle cose bellissime, perché io non dico che siano da rottamare, all’opposto! Possono fare delle cose straordinarie basandolo sulla loro esperienza, possono sviluppare mentorship, possono pensare veramente a una seconda vita sociale. Oggi che l’età anziana ci porta ad essere “grandi anziani” a 85 anni e che abbiamo davanti a noi tanti decenni. Non è che a 65 anni uno si rottami e vada in pensione veramente: un leader del Terzo settore può avere ancora 20 anni di grande impatto, però non nelle stesse posizioni di potere, non nelle stesse posizioni di influenza. Dobbiamo lasciare degli spazi ai giovani che loro vedano come significativi.

I giovani lo chiedono?

Per la loro moral ambition: tanti di questi ragazzi hanno un’ambizione etica, hanno una voglia di avere impatto, come di senso della propria vita. Quelli con cui io ho parlato ad Alpbach – gente che sta due settimane a fare volontariato in un paesino dell’Austria e a parlare di questi temi –  sono persone che vogliono avere influenza, che vogliono avere potere come verbo non come sostantivo, come posizione. Però se noi non gli lasciamo degli spazi, non investiamo su di loro, gli chiediamo delle internship gratuite o a 500 euro a Milano Roma… Ma vergoniamoci!

Difficile, in effetti.

Che cosa fa un ragazzo con 500 euro a Milano Roma, se non è un figlio di papà, e deve affittarsi una stanza in cui dormire? Ma ti prego! Sono contraria alle internship gratuite, le aborro, penso che debbano guadagnare uno stipendio decente da quando entrano e penso che debba essere un settore attrattivo. Quindi chiediamoci anche perché le organizzazioni del Terzo settore risultano così poco attrattive a questi giovani. Dopodiché la filantropia…

Dopodiché la filantropia?

Dopodiché la filantropia, secondo me, ha delle grandi responsabilità, come hanno delle grandi responsabilità tutti i finanziatori che hanno messo in atto un sistema tutto tarato sui progetti, tutto tarato sulle attività, tutto tarato su degli output e dei servizi diretti da offrire, senza invece investire sui change maker, sui giovani, sulle persone che portano il cambiamento, giovani e non giovani, sui talenti. In un post di LinkedIn mi è capitato di scriverlo la scorsa settimana: è importante la crescita personale, di ciascuno di noi in posizioni di leadership. Gli inner development goals sono un esempio: mettere in discussione anche le nostre modalità, i nostri bias impliciti, le nostre modalità, come suggerisce Otto Scharmer (il padre della Teoria U, ndr).

Un lavoro ancora da fare…

Chi ha investito su queste cose nel Terzo settore, per renderle diverse da un capitalismo estrattivo quello che vedeva le organizzazioni aziendali soltanto come macchine per riuscire a produrre? E invece, se noi veramente volevamo delle organizzazioni che avessero l’anima, delle soulful organization, e penso a Federic Laloux e quel suo libro meraviglioso, Reinventare le organizzazioni (Guerini), c’è bisogno proprio di percorsi di investimento sulla leadership dei giovani, sulle capacità di crescita personale, sul coaching, offrire davvero dei percorsi che non siano il “corsino di formazione”, una volta ogni tanto, ma siano proprio processi di crescita personale, per la crescita collettiva e per l’impatto collettivo. E questo non l’ha fatto nessuno. Il Terzo settore lo ha davvero trascurato, secondo me: tanto le organizzazioni e le persone che fanno le organizzazioni.

C’è stata a lungo la convinzione che questa provvista ideale, di cui era fornito chiunque lavorasse nel sociale, bastasse. Tutto il resto era residuale.

Sì, però io, su quella spinta ideale, nei miei 20 anni e inizio ’30, ho avuto due burnout, perché comunque lavoravi nella cooperazione internazionale a dei ritmi elevatissimi, sette giorni su sette, sempre pensando di non fare mai abbastanza, senza che nessuno ti accompagnasse nel capire che cos’era questa povertà che ti si buttava addosso e che ti entrava nelle vene e che ti soffocava.

Che cosa ricorda?

Mi ricordo nelle mie prime esperienze, in centri di accoglienza per bambini in situazioni di strada ad Assuncion in Paraguay o in Albania dal ’99 fino al 2002: situazioni a cui non eri preparato dal punto di vista della solidità emotiva e psicologica. Ciascuno di noi ha poi impiegato anni, nel mio caso decenni, a capire che avevo bisogno di stare il weekend a camminare nelle mie montagne o a fare altro o a leggermi un romanzo e che non potevo reggere di sette giorni su sette, 11 mesi all’anno.

La sostenibilità del lavoro, diciamo.

Che accompagnamento abbiamo avuto in termini di coaching, supporto psicologico? Però investire nelle persone e nelle organizzazioni vuol dire anche questo. Secondo me il puntare soltanto sulla motivazione, profondissima e individuale, è una cultura ancora grandemente dominante per cui sulle organizzazioni si investe ancora poco. Non abbiamo ancora capito che le organizzazioni e le persone sono davvero il più grande alleato del raggiungimento della causa, non ne sono un nemico. Penso a ong, che hanno l’etica del sacrificio, l’etica del sottopagare…

Lei cosa pensa.

Penso che sono d’accordissimo al fatto che tra la prima posizione nell’organigramma, di una non profit, all’ottava, non ci possa essere una differenza retributiva più grande di uno a otto. Considero abominevole ciò che succede nel profit, dove fra un ceo e un operaio il rapporto sia da 1/300, nella maggior parte delle aziende…

Però?

Però inserire nel non profit, i tetti per le retribuzioni a non più del 40% del minimo sindacale… ma per favore. Li abbiamo visti a quanto sono i minimi sindacali in Italia, ma a Milano e a Roma come ci vivi? Io lo trovo molto ideologico.

Assifero, omeritoriamente da tempo ormai, con la famosa vuota ai convegni, la future chair, ricorda a tutti il tema generazionale. Come proseguirete?

Continuiamo parlando di succession planning, continuiamo a fare questo nudging, a spingere gentilmente.

Vi va dato atto che avete questa grande coerenza. Ci sarà, in Assifero qualche attività di sensibilizzazione? Si può pensare delle cose specifiche?

Noi portiamo avanti sia dei temi sia dell’innovazione di processo. Per noi di questo si tratta: da 40 anni, la pratica è quella di finanziare solo progetti. Noi abbiamo costruito, a livello europeo, una piattaforma che si chiama Funders for Real Change, che reimmagina in project based giving. L’abbiamo creata un anno e mezzo fa con Ariadne (European Funders for Social Change and Human Rights), nel cui board sono stata per sei anni. L’obiettivo era raccogliere, in un unico sito, tutto quello che le fondazioni filantropiche stanno cercando di fare per cambiare dall’interno le modalità e la pratica del finanziamento più a favore delle organizzazioni e non soltanto vincolato ad attività progettuali eccetera.

Che cosa si trova su questa piattaforma?

Case studies, approfondimenti, sui quali lavoriamo moltissimo con i nostri associati. Abbiamo bisogno anche, ovviamente, di un lavoro più di sistema, quindi proprio con Felice Scalvini vorremmo lavorare su un contratto per gli enti filantropici, perché non vogliamo usare quello del commercio…

Incredibile, infatti

… ma vorremmo usare un contratto che magari preveda, una volta ogni tot anni, un sabbatico, o altri tipi di cose che possono stimolare veramente la creatività e l’empatia. E poi abbiamo sottoscritto la campagna We Pay Our Internship che non è ancora la realtà di tutti. L’internship gratuita è espressione di una cultura corporativistica di un Paese che ha il 14% di laureati e che non ha mobilità sociale.

Nella foto di apertura, di Stefano Carofei per Agenzia Sintesi, operatori sociali aiutano un ospite della Casa della Carità di Forlì.

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