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Israele e il costo nascosto della guerra. Quale futuro per la Startup.. #finsubito prestito immediato


Un risvolto forse meno evidente delle tensioni in Medio Oriente è quello che colpisce il settore Startup locale. Israele è, infatti, un hub unico per le imprese innovative nell’area. Un’eccellenza che va ben oltre i punti di vista locali e regionali, ma configura una vera e propria leadership globale: nel 2022, il Paese registrava la maggiore incidenza di special entities – unicorns ed exit – pro capite (Fonte: Zenbusiness).

Ma oggi, con i conflitti in atto, com’è la situazione? «Tutto sommato si può definire “business as usual”», dice Hadar Shor, Ministro Commerciale e Capo della missione commerciale israeliana in Italia.

Israele è stato ribattezzato la Startup nation. E lo è non solo per il grande valore aggiunto che porta all’ecosistema innovativo globale, ma anche per il ruolo cruciale che l’industria high tech interpreta nell’economia nazionale. Tra il 2018 e il 2023, il settore è stato responsabile per più del 40% della crescita del PIL israeliano. Conta circa 9mila compagnie, con più di 400mila impiegati, rappresentando il 53% delle esportazioni e un quinto del PIL del Paese (Fonte: Israel Innovation Authority).

A un anno dallo scoppio del conflitto, scatenato dall’attentato del 7 ottobre 2023, qual è stato l’impatto su questo avanzato ecosistema?

Resilienza: carta vincente

Dai dati dei sondaggi, alcune immediate conseguenze emergono, almeno per quanto riguarda il sentiment degli operatori. Dall’anno scorso a oggi, gli imprenditori israeliani lamentano ritardi nello sviluppo aziendale, difficoltà a ottenere fondi, cambiamenti nei piani operativi e perfino, in alcuni casi, un calo nelle vendite e negli incassi (Fonte: Israel Innovation Authority).

Ma al di là della percezione, quando si guarda ai numeri effettivi, queste informazioni sembrano decisamente ridimensionate. Un esempio di questo sono i profitti, che non si possono osservare direttamente, in quanto la normativa israeliana non impone di pubblicarli, ma sono in parte ricavabili da altri dati. «In primo luogo, non vediamo una grossa differenza nelle imposte che le imprese stanno pagando, una cifra che ovviamente è calcolata sulla base dei profitti», dice Shor. «Un secondo dato correlato indirettamente è invece quello delle esportazioni di beni e servizi. Possiamo vedere che, nella prima metà del 2024, non si registra un colpo così grave né al primo valore né al secondo. Questo indica che anche l’impatto sui profitti è probabilmente trascurabile».

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È un dato da legare alla resilienza generalmente riconosciuta all’economia israeliana, abituata più di altre a sopportare periodi, anche prolungati, di conflitto. «Siamo entrati in questo scontro essendo molto più resilienti della maggior parte delle economie occidentali. A tal proposito, l’high tech è il cuscinetto dell’economia israeliana». Proprio il settore high tech, apparentemente stagno agli shock esterni, rappresenta un motore di crescita capace di spingere avanti il Paese anche attraverso i più complessi momenti di crisi. Per ora, il conflitto in corso non sembra fare eccezione.

«Questa resta una guerra e ci sono ancora molte persone in ostaggio, ma da molti punti di vista non vediamo ancora effetti. O meglio, non ne vediamo proprio. A novembre o dicembre, dicevamo “ancora”, ma posso dire che laddove dopo un anno non osserviamo niente, non è più un “ancora”, bensì semplicemente un effetto non c’è».

Risorse umane e lavoro

Certo, alcune conseguenze si vedono: in primis, sul Mercato del lavoro. Già dall’inizio della guerra, la mobilitazione di massa dei militari della riserva – nelle prime settimane di ottobre si parlava di mezzo milioni di mobilitati su una popolazione di neanche 10 milioni – fa alzare sopracciglia riguardo alle eventuali difficoltà di portare avanti con regolarità la gestione delle imprese e di reperire il personale necessario.

«Abbiamo avuto parecchio a che fare con questo, perché ovviamente quando le persone sono coscritte o richiamate dalla riserva, non sono nei loro soliti uffici. Credo che la risposta a questa nuova situazione abbia ancora una volta a che fare con la resilienza. Gli israeliani portano a casa il risultato. Non importa se sono richiamati dalla riserva nel Nord o nel Sud, a Tel Aviv sotto i razzi o nei loro uffici in un giorno normale: una scadenza è una scadenza. Per questo, di solito le compagnie continuano il loro lavoro e trovano soluzioni anche se i loro impiegati sono chiamati per la leva. Alcune volte ci si può mettere di più – si vedono sicuramente fallimenti e bancarotte, ma non è un fatto nuovo.

Israele è uno Stato dove, ancora nel 2016, venivano fondate dalle 600 alle 1.000 Startup all’anno, mentre in media solo il 40% di esse sopravviveva. Non è inusuale, fa parte della vita in Israele: è il modo in cui cresciamo. Se il tasso di fallimenti crescesse al 65% o al 70%, allora non saprei, ma al momento ce n’è abbastanza perché tutti possano mantenersi», dice Shor, che addirittura rilancia: «Il fatto che molte persone siano state richiamate non ha influenzato direttamente l’industria dell’high tech. Al contrario, vediamo emergere un sacco di idee. In generale, quando metti degli israeliani insieme per un po’ e parlano tra loro, poi producono idee per cose nuove. In questo caso, alcune persone che non erano state insieme per alcuni anni si sono trovate di nuovo coscritte insieme per qualche settimana.

È diventato un po’ come un lungo hackathon tra un sacco di persone del mondo tech. E di colpo vediamo che quest’anno alcune Startup sono state create da persone che si sono messe insieme e hanno avuto un’idea nuova: dall’App di pagamenti al sistema di trasporto. Suona un po’ strano, ma visto che le persone sono state tagliate fuori dalle loro vite normali, d’improvviso stanno cogliendo quest’opportunità per cambiare. È il risvolto positivo che hanno trovato in questa situazione».

Un’affermazione che non può non richiamare il claim di fondo di una campagna lanciata alla fine del 2023 e supportata dall’Israel Innovation Authority: «Israeli tech delivers no matter what!». Ma al di là dello slogan, alcune difficoltà oggettive esistono. Secondo i calcoli della stessa Innovation Authority, sono al momento in servizio di riserva ben 30mila addetti del comparto high tech. Un fatto che spiega parte delle affermazioni delle imprese, che lamentano soprattutto un rallentamento nelle normali procedure e una ridotta capacità di perseguire i propri obiettivi. Il rischio paventato riguardo al reperimento del personale, in compenso, non pare essersi realizzato. Al contrario, l’occupazione vede invece una flessione, soprattutto nelle prospettive di crescita, ora che molte compagnie dichiarano di aver ridimensionato i loro progetti per nuove assunzioni, soprattutto di lavoratori israeliani.

«Se guardiamo ai dati di occupazione, possiamo vedere che il turnover – ma non l’occupazione stessa – si è raffreddato. In passato, era quasi impossibile trovare ingegneri israeliani a Tel Aviv. Oggi, se ne potrebbero trovare uno o due. Credo questo sia il più grande cambiamento osservato, ma penso sia comunque ragionevole, per il sistema economico».

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E le variazioni paiono ridursi a zero sul Mercato del lavoro internazionale. «Va detto che non ricevevamo già molti lavoratori qualificati dall’esterno. Bisogna attraversare uno specifico processo per ottenere un visto per gli esperti (Highly Skilled Worker Visa, ndr). Parlando per esperienza personale, prima della guerra ricevevo circa cinque richieste al mese e continuo a riceverne altrettante. Insomma, qui in Italia non vedo una grossa differenza e presumo che sia lo stesso per il resto dell’Europa e degli Stati Uniti.

In generale, non penso che la cosa giochi un ruolo significativo per l’economia. Se guardiamo ai singoli casi, talvolta c’è un tecnico che magari non se la sente di venire perché ha letto le notizie, ma in tal caso di solito ce n’è un altro pronto ad arrivare. In altre parole, non vediamo progetti che non vanno avanti per mancanza di personale. A volte, forse, trovare la figura giusta può prendere una settimana in più, ma alla fine si riesce. Il treno non si ferma».

Le reazioni di chi investe

Il risvolto più rilevante per il mondo delle Startup è però quello dei finanziamenti. Tenere sotto controllo il cash flow, avendo sempre la liquidità necessaria, è una delle sfide principali per le imprese innovative. Non per niente, una metrica importante è il runway (“passerella”), ovvero il tempo a disposizione prima di esaurire le riserve di liquidità. All’indomani dello scoppio del conflitto, quelle compagnie che stavano andando avanti con un runway piuttosto corto hanno immediatamente temuto di non avere la possibilità di estenderlo, per via della diffidenza degli investitori.

Alla prova dei fatti, la reazione è stata piuttosto diversificata e non del tutto univoca, ma bipartita: da un lato, gli investitori istituzionali, come le società di Venture Capital, già attivi nel Paese e focalizzati sulle Startup locali non sembrano reagire più di tanto.

«Noi abbiamo investito in Israele durante l’intifada, durante l’operazione in Libano ecc. A meno che questo non divenga un conflitto internazionale con gli Stati Uniti e l’Iran, il che speriamo non accada, credo per noi sia lo stesso. Gli imprenditori israeliani hanno continuato a innovare attraverso altri momenti difficili e le loro compagnie hanno performato bene. Non sconsiglieremmo a nessuno di fare un investimento per via della guerra: la situazione è business as usual» ha detto in un panel di metà novembre 2023 Jacques Benkoski, General Partner di US Ventures. «Certo, Gli investitori che investivano in Israele una tantum, ma non facevano dell’investimento nel Paese la loro strategia di fondo, probabilmente non la pensano come noi».

«I VC pensano nel lungo termine. La ragione per cui molti di loro hanno deciso di cominciare a lavorare in Israele è l’incredibile e talentuoso ecosistema Startup del Paese e la possibilità di trovare imprenditori di alto livello», conferma Shuly Galili, Founding Partner di UpWest, un’altra compagnia attiva in Israele.

E i dati di un anno dopo sembrano dare ulteriore avallo a queste affermazioni: l’investimento totale pare essere sostanzialmente invariato a livello di raccolta rispetto ai dati precedenti al Covid-19, su tutte le fasi di vita della Startup e i tagli di investimento (Fonte: Israeli Tech Review). Unica apparente differenza, un aumento del taglio medio, con un numero di deal più basso tra il primo e il terzo trimestre 2024 (289 deal) e lo stesso periodo del 2019 (327).

«Abbiamo visto un forte crollo a partire dal variare dei tassi d’interesse e in relazione al generale ritiro dagli investimenti a livello globale. Ma se guardiamo a un orizzonte più ampio, il trend di lungo periodo resta piuttosto regolare. Non vediamo, in corrispondenza del 7 ottobre, un grosso cambiamento, né in termini di acquisti, né di investimenti. Certo, per Israele è un notevole calo, ma in atto già dall’anno scorso, in relazione a quanto accade anche in Europa. Sono fenomeni determinati da fattori ciclici. Per quanto possa suonare strano, prima degli eventi di ottobre 2023 avevamo osservato alcuni squilibri tra i tassi del Tel Aviv Stock Exchange e il Nasdaq, per via degli accadimenti politici in Israele.

Dopo lo scoppio della guerra, siamo tornati in esatta correlazione col Nasdaq e in generale con gli Stati Uniti. Direi che è completamente ciclico al momento. Ovviamente, ci sono problemi di lungo termine che potranno emergere più avanti, ma la resilienza dell’economia e dell’infrastruttura in generale controbilancia questi cambiamenti».

Anche in questo quadro tutto sommato positivo, troviamo due nei importanti: il primo è quello che riguarda l’entità dei round di finanziamento. Ben il 36% delle Startup che raccolgono investimenti in Israele stima che la prossima levata di fondi sarà un “down round”, che sottovaluterà quindi l’impresa rispetto all’attuale valore di Mercato. Un aspetto non da poco, che indica forse una generale tendenza alla stagnazione nella crescita di un settore che è normalmente di traino.

E altrettanto indica un altro dato: confrontando la quota di investimenti follow-on con quella di quelli nuovi – due numeri solitamente piuttosto allineati – osserviamo che nei primi due quarti del 2024 la sproporzione a favore dei primi è impressionante: raccolgono 3,181 miliardi di dollari, contro appena 1,79 miliardi di nuovi investimenti. Un dato compensato solo in parte nel terzo trimestre.

Le prospettive

Insomma, al momento la guerra non sembra aver intaccato lo zoccolo duro – o il cuscinetto, se si preferisce – dell’economia israeliana. Alcuni dati, tuttavia, segnalano che i rischi nel medio e lungo termine sono tutt’altro che scongiurati. L’escalation delle tensioni geopolitiche che stiamo osservando in tutta l’area non può che rappresentare una grave minaccia potenziale, soprattutto nella percezione di eventuali investitori esteri. «A meno che non divenga un conflitto internazionale…» si diceva 12 mesi fa. Questo possibile allargamento della crisi, che oggi pare drammaticamente più vicino, è la variabile più potenzialmente dannosa per il sistema economico. Una prima avvisaglia è quella dei credit rating delle agenzie, in diminuzione costante dal 7 ottobre 2023: per Standard & Poor’s è passato da AA- a A, mentre Moody’s lo abbassa da A1 addirittura a Baa1. Quel che è ancora più rilevante, entrambe concordano nell’assegnare al Paese un outlook negativo per il futuro.

Anche escludendo il rischio geopolitico, comunque, la situazione non è certo rose e fiori, con i trend di lungo periodo che sembrano prendere un abbrivio deleterio per il settore. Per dirla con l’Israel Innovation Authority, l’high tech israeliano è a una svolta: dopo anni di espansione, sembra vivere uno stallo. Non l’ideale, in un mondo Startup in cui solo una crescita esplosiva e costante è sinonimo di successo. A indicarlo, oltre al calo sopracitato dei nuovi finanziamenti, è il ritmo di fondazione di nuove compagnie, in calo pressoché costante dal 2015. Allora, erano 1380. Per quest’anno, se ne registrano per ora 154 accertate e 454 stimate (Fonte: Israeli Tech Review). Anche aggiungendo al computo le nuove imprese che nasceranno nel quarto trimestre, il calo pare evidente. E lo è altrettanto il trend discendente di lungo termine.

Contrastare questa tendenza  rappresenta la principale sfida del comparto per gli anni a venire. Da come sarà affrontata potrebbe dipendere molto del futuro dello stesso sistema economico di Israele, che dall’high tech è così fortemente dipendente. E se la guerra non ne è probabilmente il fattore scatenante, un conflitto alle porte di casa non può che essere un ulteriore ostacolo di fronte alla necessità di invertire la direzione di marcia, tornando a crescere a ritmi sostenuti.

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Articolo tratto dal numero del 1 novembre 2024 de il Bollettino. Abbonati!

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