Il cantautore genovese racconta in esclusiva a Goa Magazine la sua esperienza musicale in Spagna e la scoperta del flamenco come linguaggio di coesione e ritrovo sociale. È ora disponibile all’ascolto su tutte le piattaforme di streaming il suo disco inedito “Tablao Beat”
GENOVA – In una società preconfezionata e dettata dai ritmi delle tendenze è facile sentirsi soli in balia del caos mediatico. Forse si può parlare di un malessere generazionale, di una perdita della cultura dello stare insieme, o forse è solo una questione di ritrovarsi nella propria realtà: è questo il dilemma a cui ha deciso di far fronte il ventisettenne Marco Buccellato, in arte Boccanegra, il cantautore emergente di Genova che per trovare la risposta a questo dramma interiore ha rivolto lo sguardo altrove, alla Spagna e alle melodie struggenti del flamenco.
Direttamente da Siviglia, il giovane chitarrista ha raccontato in esclusiva a Goa Magazine il suo percorso artistico, che nasce a Genova tra gli insegnamenti di Marco Galvagno e il Conservatorio Paganini, ed il suo nuovo progetto musicale “Tablao Beat”, uscito venerdì 15 novembre su tutte le piattaforme di streaming digitale e in vinile.
Da Genova a Granada: come mai hai scelto la Spagna per il tuo percorso, e come mai il flamenco?
Prima ancora di frequentare il Conservatorio Paganini io sono cresciuto sotto la guida di Marco Galvagno, chitarrista di formazione classica, che però mi ha fatto studiare anche alcune cose di Paco De Lucía, mi ha sempre portato un po’ in quella direzione, pur non avvicinandomi al flamenco puro.
Nel 2022, preso da una ventata di entusiasmo, sono andato in Spagna. Inizialmente non avevo neanche l’idea di concentrarmi così tanto sul flamenco, era solamente una scusa, ero in Spagna per un momento di pura vida in un periodo che era abbastanza libero dall’università. Sono andato a studiare alla Escuela Carmen de las Cuevas di Granada, una scuola che si trova, appunto, nelle cuevas, che sono queste grotte nel Sacro Monte dove i gitani si riuniscono per fare gli spettacoli di flamenco. Stando lì ho capito la forza espressiva del genere e me ne sono appassionato. A partire dalla primavera del 2022 appena avevo un momento libero sono tornato diverse volte in Andalusia e ho conosciuto tante persone che frequentavano il mondo del flamenco. Da quell’esperienza ho un po’ germinato l’idea di questo disco, che poi si è sviluppata e realizzata grazie al contributo di SIAE e del Ministero della Cultura. Però sì, è tutto nato in maniera casuale da una spinta un po’ esotica verso la Spagna, da questa vocazione, da questo sogno adolescenziale un po’ idealizzato di passare un periodo in Spagna. Alla fine mi sono avvicinato al flamenco e ne ho capito realmente la forza espressiva e la cultura, realizzando che effettivamente è un mondo a sé stante con un linguaggio complesso, ricco e condivisibile, che poi è la cosa che mi ci ha fatto avvicinare di più.
Raccontaci il tuo nuovo progetto “Tablao Beat”
L’idea alla base di “Tablao Beat” è abbastanza semplice: il flamenco è diviso in tanti stili, questi stili si chiamano palos, e ciascuno di essi si contraddistingue per struttura ritmica, tematiche affrontate nel canto, atmosfere. Il concetto di fondo è che il flamenco è solo un punto di partenza da cui estrarre solamente la struttura ritmica dei diversi palos flamencos, tipicamente strutture fuori dai quattro quarti a cui siamo abituati. È un po’ un esperimento per vedere se la forza espressiva del genere si conserva uscendo della sua frontiera originaria, se è fruibile anche al di fuori di sonorità puramente flamenche.
Abbiamo preso otto palos, che in verità sono tantissimi, ne ho presi solo alcuni a campione e mi sono concentrato su quelli. Questa è la base: utilizzare questa struttura per parlare di una tematica, che è quella di una nuova beat generation di ragazzi che rifiutano il mito del successo.
Il binomio tablao e beat
Il tablao nella cultura flamenca è la tavola di legno su cui ballano le ballerine accompagnate dalle palmas e dalla chitarra, però in senso più esteso si parla di tablao anche per riferirsi al complesso linguaggio che i diversi performer sul palco adottano per comunicare fra di loro durante lo spettacolo.
Beat si rifà a beat generation. Era da tempo che vedevo che ci sono tanti miei coetanei che stavano male, soprattutto nel periodo del Covid, e mi interrogavo su quale fosse la sorgente di questo malessere. Andando in Spagna ho trovato tante persone che erano afflitte in qualche maniera da una sorta di inquietudine, che io poi ho identificato come un rifiuto del mito del successo. Noi viviamo in un’epoca in cui attraverso i social network e i media in generale riceviamo dei modelli di realizzazione personale che sono sempre basati sul successo, sulla fama, su un certo tipo di canonizzazione all’interno di certi schemi capitalistici. Per cui bisogna apparire ed avere un’estetica ben definita, penso che ciascuno ormai sia tenuto ad avere un profilo Instagram estremamente definito, con un’identità ben delineata. Mi sono reso conto che ci sono tantissime persone che non sono né pronte, né tantomeno intenzionate a trasformare la propria vita in maniera performativa. Questo conflitto tra il desiderio di realizzazione e una felicità personale ed una invece canonizzata che alcune persone non riconoscono genera tanto malessere. Come risposta ho trovato tanti ragazzi e tante persone che utilizzano il flamenco come una maniera di ritrovare il piacere di relazionarsi con gli altri attraverso pratiche di condivisione collettive corali, esplorando nuovi modi di stare insieme non rifiutando, allo stesso tempo, un principio di individualismo: questa è l’idea che mi sono fatto in Andalusia.
Quali sono i temi affrontati nel tuo disco?
Il disco racconta di una ragazza, o di un ragazzo (in verità il genere è indifferente), che mostra questa inquietudine e decide di partire per fuggire e affrontare i suoi demoni: vive diverse tappe nel corso del suo viaggio, si innamora, trova amori esotici, incontra persone, prova droghe. Poi capisce, ritrovandosi con dei compagni e con delle persone a cui si sente unito dagli stessi sentimenti, che effettivamente la soluzione a questo conflitto interiore sta proprio nel ritrovarsi, ballare insieme, nel riscoprire alcune pratiche collettive corali e modi di stare insieme a cui la società in cui ci troviamo non dà accesso. È così che il flamenco è vissuto in Andalusia: lì può capitare di vedere per strada delle persone che non si conoscono minimamente ritrovarsi ad un tavolo ed iniziare a cantare. Loro conoscono il linguaggio del flamenco e trovano un modo per stare insieme che non sia per forza legato al conoscersi personalmente. C’è un linguaggio che accomuna le persone e che permette un po’ di ricostruire un senso comunitario a cui la quotidianità normalmente ci allontana.
Cosa ne pensi, dunque, del ruolo dei social media all’interno della produzione musicale?
L’estetica ha preso un ruolo preponderante in tutto, nella vita delle persone in generale, figurati nei confronti degli artisti. Per cui ormai ciascuno deve investire del tempo nel vendere la propria arte come se fosse un vero e proprio prodotto che va pubblicizzato. Ormai è come se fare arte richiedesse anche delle skills di marketing, che magari prima non erano richieste. Questa intrusione a volte può avere un effetto deleterio perché magari ci sono delle persone che si vogliono concentrare sul fare la propria attività, e vedere che questa poi deve essere valutata in primis da come ci si vende è difficile da accettare. È come un mercatone, e a volte sì, sono dinamiche altamente invasive. Io ho un’anima da boomer di base, per cui lo rifiuto un po’. Diciamo che anche il bando di SIAE includeva una parte di budget piuttosto ampia solo per la componente audiovisiva, per cui nel mio caso è avvenuto tutto in modo naturale. Però è necessario, purtroppo è necessario, il dramma è questo.
Parlami dei tuoi primi passi sulla scena genovese e di come sei arrivato fino a qui
Il percorso come Boccanegra in realtà inizia da molto lontano. Nel 2012 Boccanegra era un gruppo di amici del liceo, al Colombo facevamo le assemblee musicali, ci esibivamo alla fine dell’anno con le nostre canzoni. Facevamo i nostri concertini nell’underground genovese, ai Luzzati, Lucrezia e via dicendo. Poi nel 2018 ci siamo sciolti come gruppo perché gli altri hanno deciso di non continuare con la musica. Loro sono ancora i miei più cari amici per cui mi hanno detto di tenere pure il nome Boccanegra e continuare il progetto come solista.
Dopodiché mi sono trasferito a Bologna. Nel 2022 è uscito il mio primo album omonimo sempre prodotto Boccanegra. Ho fatto delle tournée varie in giro per l’Italia. Sempre nel 2022 ho vinto il premio Lauzi per il miglior testo a Capri.
Genova è una città estremamente stimolante, stimola la fantasia non sono dal punto di vista geografico-estetico-territoriale, per la presenza del mare e via dicendo. Di questo me ne sono reso conto andando a vivere a Bologna, la città forse più distante a livello di atmosfere. Genova è frastagliata, stimola la fantasia, anche dal punto di vista visivo: andare in una città che è piatta e non ha la terza dimensione, che non si espande in verticale è un trauma, e senza il mare soprattutto. Genova è una città che secondo me stimola pensieri, un’introspezione diversa.
Quali sono le tue principali influenze a livello artistico?
Da sempre sono fedele agli Arctic Monkeys, per me Alex Turner è sempre un grande punto di riferimento. Devo dire che per questo album, partendo da atmosfere diverse e ritmiche diverse, anche nella scelta delle references siamo stati un po’ più larghi, più liberi. Abbiamo creato un contributo abbastanza originale. Chiaro che poi ovviamente nella produzione di qualsiasi disco ci sono delle influenze, però ho guardato più al mondo del flamenco. Tra gli artisti che mi hanno accompagnato nell’ultimo periodo c’è sicuramente Vicente Amigo per esempio.
Il palco è tuo: lasciaci con un bel messaggio finale
Ascoltate Tablao Beat e mandate a quel paese il mito del successo. La cosa che dico in generale è che secondo me dobbiamo ridimensionarci anche se è difficile farlo. Ridimensionare la nostra concezione della felicità. Ci domandiamo troppo spesso come generazione che cos’è che ci può rendere felici, e non è colpa nostra: noi siamo sempre cresciuti con “il mondo fa schifo”, “è sempre colpa nostra”, “siamo dei poveri ignoranti” e via dicendo. Invece bisogna sovvertire questo pensiero. Dobbiamo riformulare un principio di star bene che sia sostenibile e che sia accessibile. A volte semplicemente guardare meno le tendenze aiuta a concentrarsi e ad essere più analitici. Abbiamo vissuto questa cosa con i social network che veniamo bombardati di contenuti con una tale intensità che dopo siamo quasi costretti a stare in superficie, perché sennò non siamo in grado di gestirci. A volte noi per primi dobbiamo mettere dei filtri critici.
Quindi ascoltate l’album, ascoltate Tablao Beat, ci ho messo anima e corpo.
Instagram: https://www.instagram.com/boccanegra__/
Link allo streaming: https://orcd.co/tablao_beat_boccanegra?fbclid=PAZXh0bgNhZW0CMTEAAaZUUQpxenMsA0CkhonYpBs6s4fj9HikWp55y4nIKednJ-EKvtT8YFLobfM_aem_gumldM0yPb5BDtaIYTJ2TQ
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