Ruolo e prospettive della «locomotiva» economica del Paese: «Paghiamo lo stop tedesco, ma i servizi da soli non bastano»
«Bologna è la nuova capitale dell’innovazione. Molto più di Milano, entro un’Emilia esempio positivo. E in assenza di risposte dal Veneto, che non ha una città che funzioni altrettanto bene». Il tema è la crisi che si approfondisce e la locomotiva industriale del Nord che si ferma. E Alberto Baban, imprenditore e presidente del Club Deal degli imprenditori Venetwork, riassume così la capacità di reazione che in essa paiono esprimere i territori. L’occasione è il dibattito, giovedì 14 novembre, oltre che con Baban, col banchiere e manager Alessandro Profumo, ora presidente dell’Advisory Board di Rialto Ventures, e l’editorialista del Corriere dell Sera, Dario Di Vico, moderato dal giornalista Enrico Cisnetto, nel suo format on-line War Room. Al centro la congiuntura sempre più nera nell’autunno che avanza, tra crisi industriale, con automotive nella tempesta, erosione degli stipendi, Pil in frenata e giovani in fuga dal Nord. «Più che un campanello d’allarme – esordisce Cisnetto – il gong che segna lo stop della locomotiva del Nord». Con un corollario, visto da fuori, sul Veneto rispetto ad altre crisi del passato, quando era emerso come locomotiva. «Che fine ha fatto il Nordest punta di diamante dell’industria? – innesca la discussione Cisnetto -. Speravamo fosse un elemento in controtendenza; invece mi par che sia dentro la crisi».
Il tandem con la Germania e il freno dei bassi stipendi
«Il Nordest è spalla importante di un sistema produttivo ad ampio raggio, con al centro la Germania, nostro primo partner nell’export e con le nostre imprese in realtà subfornitrici del grande produttore tedesco che va sul mercato – spiega in replica Baban -. Ma la Germania non è più un modello, non trovando più sbocchi sul mercato; e il Nordest subisce il momento».
Se dunque nemmeno la rapidità d’inserirsi all’estero, tipica del Nordest, senza trend chiari di mercato, può fare stavolta la differenza con il resto d’Italia, c’è da chiedersi se non si sia alla fine di un modello industriale. «Di sicuro di quello delle imprese che hanno puntato sulla compressione dei costi e degli stipendi: la globalizzazione ha aperto il mercato ad imprese che ne hanno comunque di più bassi. E il numero di aziende esportatrici alla fine non è elevatissimo e un Paese non può vivere solo di quello – aggiunge Profumo -. La crisi dell’industria tedesca ci danneggia e i dazi americani genereranno ulteriore complessità. E poi c’è la questione della dimensione d’inpresa che impatta sull’occupazione dei giovani, che paghiamo troppo poco: abbiamo meno offerte di lavoro qualificate di quante ne potrebbero offrire imprese grandi e managerializzate».
L’industria è motore necessario
L’industria arriva in questa fase difficile scontando forti mancanze del passato: «Rispetto alla crisi del 2008, il Pil pro-capite americano è raddoppiato, in Italia non siamo ancora ai livelli del 2007 – approfondisce Baban -. La differenza in America l’ha fatta la dimensione della finanza a sostegno dell’industria e la creazione di valore del digitale, che noi non abbiamo capito. Affrontiamo questa transizione con pochi talenti, che fuggono all’estero, capacità di sostegno finanziario governativo a zero ed Europa in grandissima confusione». Il punto vero è però che, pur da migliorare, senza un sistema industriale l’Italia non regge. «È una realtà: il Nord manifatturiero ci connette alle catene internazionali del valore, è un patrimonio per il futuro dell’italia», sostiene Di Vico. E le sue articolazioni regionali come funzionano? «Emilia e Lombardia stanno davanti il Veneto in molti indicatori – replica il giornalista -. In particolare nel legame sulla ricerca con l’università, dove in Emilia hanno fatto cose importanti».
Milano è lontana: i possibili modelli
«Il digitale crea, è vero, molto reddito; la questione è che lo fa con pochi occupati e crea disuguaglianze. Senza un sistema industriale rilevante un Paese non va avanti – sostiene Profumo -. Quando si passa ai servizi, che per noi vuol dire turismo, si trovano redditi medio-bassi».
«In una società avanzata lo sviluppo del terziario è nei fatti. Il tema è di quale servizi parliamo: in Italia lo abbiamo fatto con quelli low-cost – riprende Di Vico -. Mi riferisco a questo, quando parlo del tradimento di Milano: doveva essere la capitale del Nord lanciato verso l’innovazione, si è invece distratta con una finanziarizzazione immobiliare. Non sono servizi che hanno fatto avanzare l’industria sulla ricerca, le startup, la digitalizzazione, la transizione energetica. È un terziario che ha perseguito altri obiettivi, come lo sviluppo turistico che non si può proporre in staffetta al manifatturiero». L’alternativa lentamente emerge: «Il modello non è la terziarizzazione. È molto importante che l’Italia abbia presente che il nostro sistema industriale può vivere un’evoluzione in cui il digitale stia dentro, e non in alternativa, alla manifattura – conclude Baban -. È rilevante per determinare le politiche industriali, senza prendere altrove modelli che non funzionerebbero. La politica dovrebbe poi capire che le transizioni costano e l’industria ha bisogno di sostegni e di tempo».
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