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Nel mondo del lavoro è forte l’esigenza di un cambio di paradigma, una svolta operativa e di comprensione, che riguarda il senso, soprattutto nelle generazioni che si affacciano oggi al mercato: i più giovani, «la nostra speranza migliore» (papa Francesco).

L’impresa sembra completamente impreparata a dare risposte a esigenze nuove. Non ha il linguaggio né i concetti per ricostruire un dialogo con chi lavora. Le soluzioni in campo riguardano un migliore equilibrio tra tempo di vita e tempo di lavoro, come se il lavoro fosse di una sostanza diversa dalla vita. Comprimere la sfera del lavoro per farlo accettare come un male inevitabile, significa abdicare al desiderio di un rinnovamento del senso. Così anche i grandi della Terra sembrano inadeguati.

Sfide evitate

Il G7 del lavoro in corso a Cagliari nemmeno prova ad accettare la sfida. Si limita ad accompagnare il declino, a regolamentare i margini del problema. Né potrebbe fare altrimenti. I paesi del G7 sono i campioni della denatalità e della decrescita demografica, gli alfieri dell’invecchiamento. Non stupisce che il problema fondamentale da affrontare sia prolungare la vita attiva.

I Paesi del G7 sono inoltre il baluardo di un modello di sviluppo insostenibile, che sta conducendo il mondo al baratro climatico, alla polarizzazione della ricchezza e all’incrudelirsi delle disuguaglianze.

In questo modello il lavoro è lavoro salariato, necessario a chi non ha capitale per disporre di risorse atte al consumo. La gratificazione attraverso il lavoro, la valorizzazione dei talenti, il riconoscimento da parte della comunità e il contributo al bene comune sono esperienze di una parte residuale di chi lavora. Ma sembra non importare.

Rivoluzioni possibili

La rivoluzione del senso del lavoro avrebbe impatto sul concetto di profitto, quando inteso non come volano di investimenti, ma come strumento per la ricchezza personale. Oxfam ci ha dimostrato che l’aggravarsi delle diseguaglianze e la creazione di enormi patrimoni, irrazionali e incomprensibili, è correlato allo sfruttamento insostenibile delle risorse planetarie. Ripensare la destinazione dei profitti, ragionare sul valore sociale della distribuzione del valore è un pensiero che va censurato. Non mettere in discussione un modello di sviluppo fondato sul binomio lavoro salariato e consumo non ridurrà i divari né darà soluzioni al cambiamento climatico. Perché a ben vedere la ricchezza si crea vendendo merce ai lavoratori al minor prezzo possibile, se anche il modello di business dei giganti tecnologici è fondato su pubblicità e distribuzione di prodotti. Oppure prestando denaro a chi non ha capitale.

Non mettere in discussione un modello di sviluppo fondato sul binomio lavoro salariato e consumo non ridurrà i divari né darà soluzioni al cambiamento climatico

La rivoluzione del senso del lavoro avrebbe impatto sulla decisione negli investimenti, perché come ci ha ricordato Mario Draghi nel Rapporto sulla competitività dell’Ue ci vogliono risorse gigantesche per allacciarsi al treno della rivoluzione dell’ Artificial intelligence – Ai, e delle sue applicazioni, oggi in mano a pochi oligarchi planetari.

Pensieri meccanici sull’Ai

Cercare regolamentazioni per calmierare l’impatto dell’Ai sui posti di lavoro è uno scopo da teste meccaniche incapaci di visione. Il problema sta nell’uso che se ne vuole fare: nelle armi automatiche, nei cani soldato robot, nelle decisioni che prenderà la guida autonoma nei dilemmi morali. Chi deciderà di sacrificare l’automobile di Google senza altre alternative, la ricca manager o la persona con disabilità? Quali saranno i suoi criteri? Il capitale umano, il prodotto lordo pro capite nella residuale vita attiva, oppure l’affetto il calore e la felicità che la persona dona e riceve nelle sue interrelazioni quotidiane? Chi decide le applicazioni dell’Ai?

Interrogativi intorno al lavoro

Gli imprenditori o gli Stati? I lavoratori dell’Ai troveranno il senso di ciò che fanno, oppure saranno costretti a chiudere gli occhi e a scendere a compromessi con la loro coscienza. Sono molte le domande che diventano oggi essenziali per ripensare il senso del lavoro. Come ridare centralità al lavoro inteso come contributo di ognuno alla comunità, alla capacitazione degli altri, alla tutela del Pianeta? Quali sono le competenze, le professioni e le attività economiche che più delle altre sono origine di senso, di creazione di benessere, di risposta alle domande e ai bisogni che arrivano dai singoli e dalle comunità? Qual è il lavoro che merita riconoscimento? Che cos’è il “lavoro sostenibile”? Come possiamo premiarlo, anche attraverso la giusta remunerazione? Non è questo che dobbiamo aspettarci dal G7 di Cagliari, ma espedienti.

Tristi espedienti per posticipare la caduta, per frenare le rivoluzioni.

Nella foto di apertura, di Gianluca Zuddas/LaPresse, l’aula dei lavori, a Cagliari, pochi minuti prima dell’inizio del G7.

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