Nella sua nuova mostra personale negli spazi veneziani della Galleria Michela Rizzo, Cesare Pietroiusti (Roma, 1955) chiama il valore al banco degli imputati. Lo fa, tuttavia, senza il bisogno di urlare, ma sussurrando, come quando si riflette a voce alta, abbastanza da chiarirci le idee ma senza necessariamente farci sentire da chi ci sta attorno. Quelle di Pietroiusti sono opere semplici e pulite: se il valore è l’imputato, l’artista non ha la pretesa di essere un giudice, quanto piuttosto un diligente cancelliere. Che mette nero su bianco le contraddizioni del capitale, nelle sue dinamiche di vendita e di speculazione.
La mostra di Cesare Pietroiusti a Venezia
Tecnologie obsolete e processi di produzione semplici, questo il titolo della mostra, comincia con uno scherzo: l’opera Riproduzione di “La mia migliore pittura di sempre” non è che la fotografia di alcune chiazze di colore in un lavandino, visibile nella stanza successiva. Senza esplicitarlo, l’opera sembra tuttavia riflettere su come il supporto fotografico possa essere più facilmente vendibile rispetto al medium scultoreo, seppur originale. La verità, e la furbizia, sta nell’aver reso la riproduzione un’opera distinta e dotata di un concetto proprio, in una continua sovrapposizione dell’originale alla copia, della fotografia alla pittura e della pittura alla scultura.
Vendita e dono nelle opere di Cesare Pietroiusti
Superato il prologo, si incontra l’opera più estesa della mostra: una parete di disegni realizzati con il fuoco, non vendibili singolarmente ma acquistabili esclusivamente insieme. L’eventuale acquirente si impegna a donare a ciascuno dei propri ospiti un disegno, smembrando l’opera fino alla sua definitiva scomparsa. Le antitesi tra vendita e dono non sono di certo una novità nella pratica dell’artista romano, che ha costruito proprio sull’analisi dello scambio regolato dall’economia un percorso teorico sempre attivo. Lo dimostrano le serie delle Didascalie e delle Introduzioni, vere e proprie mappe concettuali che nella loro verbalità – e verbosità – sembrano sfidare l’atavicità dei disegni di fuoco che fronteggiano. Il titolo di ciascuna mappa (per esempio Dono e debito, Valore, Dono e tempo, Scambio, Interesse) ne esplicita il punto di partenza, che poi si ramifica in riflessioni, collegamenti, citazioni, ricreando visivamente quell’infrastruttura semantico-antropologica che intreccia il denaro alla sua negazione.
I francobolli nella pratica artistica di Cesare Pietroiusti
Nel corridoio l’opera sonora Newton, in cui Pietroiusti prima annuncia un rumore semplice – la caduta delle briciole sul pavimento, per esempio – e poi lo riproduce, prelude ad una riflessione sulla quotidianità che emerge dirompente nella sala successiva. Qui sono raccolte, infatti, le opere che l’artista ha dedicato alla filatelia (passione paterna), forse l’esempio più eminente di come un oggetto di uso (un tempo) quotidiano possa diventare emblema dell’accrescimento di valore. Il francobollo “Pinocchio” del 1954 si fa così portavoce di una serie di questioni che si ripiegano su loro stesse, quali la falsificazione, la certificazione, la compravendita, la speculazione, la decadenza dell’interesse collezionistico per un oggetto legato ad una pratica obsoleta, quella dello scambio di lettere cartacee.
Le ipocrisie del capitale nella mostra di Pietroiusti da Michela Rizzo
Quella del valore artistico ed economico, si presenta come una testimonianza oscillante, incoerente, auto-incriminante. E da questo processo non si salva nemmeno l’artista stesso: nel piano superiore della galleria, Pietroiusti ha infatti allestito un laboratorio artistico, dove i visitatori possono sperimentare con fuoco e macchina da scrivere per creare disegni o concetti che arricchiscono (difficile sfuggire al linguaggio del capitale) il corpus della mostra. Non c’è morale nel lavoro di Cesare Pietroiusti: c’è osservazione e, soprattutto, consapevolezza di tutte le nostre dolci ipocrisie.
Alberto Villa
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