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Cagliari, 10 settembre 2024 – Gentili Onorevoli, Senatrici e Senatori,
Prima di entrare nel merito della trattazione, colgo quest’occasione per ringraziare il Presidente e la Commissione tutta per avermi invitato, in qualità di Presidente della Regione Autonoma della Sardegna, a partecipare a questa importante indagine conoscitiva. Ritengo, anche da ex-membro di questa commissione, che il lavoro che si svolge all’interno di questa sede sia dirimente per la definizione di una serie di politiche pubbliche efficaci ed efficienti che abbiano come fine l’attuazione concreta del principio di insularità di cui all’articolo 119, sesto comma della Costituzione.
Vorrei iniziare il mio intervento partendo da un dato per così dire topografico del Principio di insularità nella Carta costituzionale. La collocazione del riconoscimento del principio di insularità all’interno dell’articolo 119, dedicato alle misure finanziarie, non rende giustizia a quelle che dovrebbero essere le sue finalità. Infatti, la convinzione secondo cui il principio di insularità possa essere esclusivamente ridotto alla necessità di introdurre nuove misure finanziarie, sebbene di perequazione, deriva da una concezione perlomeno approssimativa, se non totalmente fuorviante. L’insularità è anzitutto una condizione geografica, le cui implicazioni economico-finanziarie sono solo alcune delle conseguenze e non anche le radici dei problemi, che sono anche e soprattutto di natura sociale, culturale e storica. Ecco perché il senso profondo del principio di insularità non può essere compreso fino in fondo se non lo si analizza insieme al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3, secondo comma della Costituzione.
Fatta questa doverosa premessa, è necessario entrare nel merito. Incrociando il lavoro della Commissione speciale per il riconoscimento del principio di Insularità del Consiglio regionale con le nostre linee programmatiche, è il caso di evidenziare i seguenti settori chiave sui quali è necessario ragionare:

  1. accessibilità: va data priorità massima al miglioramento dell’accessibilità aerea e marittima, pretendendo un maggiore impegno politico e finanziario da parte dello Stato, almeno paragonabile a quello di Francia e Spagna per le loro isole maggiori;
  2. recupero del gap infrastrutturale: è essenziale indirizzare i fondi di coesione nella direzione della riduzione dei divari infrastrutturali, con particolare attenzione al trasporto interno e alle telecomunicazioni. Nuovi investimenti nella trasformazione digitale e nelle competenze digitali possono attenuare in modo significativo gli effetti negativi dell’isolamento geografico;
  3. innovazione e ricerca scientifica: la Sardegna ha tutta la potenzialità per diventare un hub di innovazione e ricerca, con progetti come l’Einstein Telescope per le onde gravitazionali. La regione, peraltro, già ospita iniziative di ricerca di rilievo internazionale, come il progetto ARIA e il Sardinia Radio Telescope;
  4. esplicazione dell’Autonomia speciale: l’adozione di politiche locali, sviluppate dal basso verso l’alto, può stimolare una crescita ben più robusta e sostenibile rispetto alle politiche top-down;
  5. qualità istituzionale: è fondamentale migliorare l’efficienza della governance e dell’amministrazione pubblica, adottando modelli organizzativi moderni e investendo nella formazione;
  6. fiscalità di sviluppo e regolamentazione: l’introduzione di forme di fiscalità di sviluppo e di aree “a bassa regolamentazione” sono strumenti efficaci per attrarre investimenti in aree problematiche. La natura insulare della Sardegna avrebbe anche il vantaggio di limitare comportamenti opportunistici delle imprese;
  7. politiche ambientali: la promozione delle energie rinnovabili nel rispetto dell’ambiente, accelererà l’abbandono delle fonti fossili, e ciò permetterà una migliore valorizzazione della risorsa-ambiente anche in chiave economica e contribuirà a rafforzare nel mondo l’immagine di un’isola che produce prodotti agroalimentari di eccellenza e nella quale la qualità della vita è alta.
    A questi macrosettori si aggiungono, necessariamente, alcuni filoni d’intervento che devono essere presi in considerazione soprattutto dal Parlamento nazionale, fra tutti la competitività. Basti pensare quanto l’elevato costo dell’energia e il maggior costo derivante dalla logistica rappresentino per la Sardegna dei freni allo sviluppo di contesti competitivi e concorrenziali.
    Infatti, il primo degli handicap di cui soffrono cittadini e imprese nei territori insulari come la Sardegna è la difficoltà di risultare competitivi sul mercato. A tal riguardo sarebbe doveroso rivedere, tra l’altro, alcune limitazioni poste dal Regime aiuti di stato dell’Unione europea. Per fare un esempio, le comunità energetiche per imprese e cittadini hanno un limite massimo di potenza pari a 1 MW, derivante dal fatto che, se le comunità energetiche dovessero superare questo limite di potenza, l’autoconsumo prefigurerebbe una violazione della disciplina di aiuti di Stato in quanto le imprese utilizzatrici risulterebbero essere in una condizione di vantaggio competitivo. Ora, capite tutti benissimo che definire vantaggio competitivo una maggiore quantità di autoproduzione energetica in un territorio dove trasportare le merci è più oneroso rispetto al resto d’Italia e d’Europa, non rispetta il principio di insularità e ostacola il superamento delle condizioni di svantaggio da esso derivanti. Ancora, non sono previste espresse deroghe al limite di 1 MW per comunità energetica e autoconsumo per cittadini, enti pubblici di varia natura. Anche qui, la ratio del regime degli aiuti di Stato è disattesa in quanto si applica a cittadini e Pubblica Amministrazione una limitazione prevista per le imprese. Questi sono aspetti che potrebbero e dovrebbero essere immediatamente modificati.
    Il lavoro delle istituzioni nazionali non deve essere limitato all’erogazione di risorse che intervengano solo superficialmente sugli effetti finali dell’insularità. Le istituzioni nazionali devono invece cominciare a concentrarsi su politiche di sistema che intervengano efficacemente sulla riduzione dei divari socio-economici che stanno a monte
    Le istituzioni, in sintesi, si devono concentrare su politiche pubbliche che intervengano sulle cause del ritardo e non sugli effetti.
    Quello che dovrebbe cambiare è proprio il paradigma. Serve porre un freno ad interventi sussidiari che mettano delle toppe qui e lì, e iniziare a ragionare e agire in maniera sistematica e organica, non attraverso singoli sussidi, ma mettendo in pratica politiche di vero, serio ed effettivo risanamento infrastrutturale, culturale, sociale ed economico in modo da arrivare a considerare la Sardegna e le altre isole delle risorse che contribuiscono al volano economico e culturale del Paese e non delle zavorre che lo rallentano.
    A tale proposito, un aspetto centrale riguarda il rispetto dell’ambiente e dello sfruttamento delle risorse naturali. Ritengo doveroso richiamare l’attenzione al contenuto del DL 84 del 2024, convertito da questo Parlamento l’8 agosto, conosciuto anche come DL materie prime critiche, un provvedimento che prevede che lo stato avochi completamente a sé lo sfruttamento del sottosuolo e delle cave e miniere sarde e non solo.
    Onorevoli Senatrici, Senatori, Deputate e Deputati, lo sviluppo di una regione come la Sardegna, reso già difficile dalla condizione geografica in cui si trova, continua ad essere messo in secondo piano a causa di un approccio eccessivamente centralista, che vede nella condizione geografica e geologica dell’Isola solo un asset da sfruttare e consumare e non invece un territorio da curare e far crescere per creare ricchezza nel tempo. Approcci sbagliati come questo, lungi dal condurre a uno sviluppo reale dell’economia dell’isola, finiscono solo per vituperare un territorio già sufficientemente martoriato dallo sfruttamento incontrollato del suolo e del sottosuolo. Ne sanno qualcosa territori quali il Sulcis iglesiente, luogo dedicato allo sfruttamento delle risorse minerarie per secoli, ma che ad oggi risulta essere tra le province più povere d’Italia. Tutto ciò a dimostrazione di come uno sfruttamento delle risorse naturali, in assenza di un piano di sviluppo dei territori condiviso con la popolazione, ha il sapore del centralismo e, lasciatemi dire, il retrogusto del colonialismo.
    La condizione insulare è una condizione sociale, prima che economica, necessita di un ruolo proattivo della Regione e delle sue istituzioni nei processi di sviluppo. Pertanto, il paradigma centralista proposto dal DL materie prime critiche, il quale tra l’altro risulta essere non conforme rispetto alla ripartizione di competenze legislative delineato dallo Statuto, che ricordo essere legge costituzionale, continua ad acuire uno scontro Stato-Regione che difficilmente può favorire lo sviluppo delle nostre economie. Al contrario, soprattutto su temi ambientali e di sfruttamento delle risorse naturali, tra le quale ricomprendo anche le risorse proprie delle fonti rinnovabili e non solo le materie prime critiche, si sente la necessità di un dialogo tra lo Stato centrale e la Regione, un dialogo che tenga davvero conto delle esigenze peculiari dei territori e delle loro caratteristiche. Se si fa l’errore di confondere l’unione tra regioni con l’omologazione, se non si valorizza e si difende la loro diversità, si perde una delle ricchezze più importanti della nostra Nazione: la varietà, dei paesaggi, delle culture, dei dialetti, di tutto ciò che rende unica e attraente l’Italia agli occhi del Mondo.
    Un tema strettamente connesso allo sfruttamento delle risorse, con particolare riferimento ai profili ambientali, è quello della siccità, al quale abbiamo il dovere in questo contesto di dedicare l’attenzione che merita, in considerazione di ciò che il problema ha rappresentato e rappresenta per settori fondamentali come attività agricole, l’allevamento, il turismo.
    Quest’ultima estate è risultata una delle più problematiche degli ultimi anni in termini di approvvigionamento idrico e, a causa dei cambiamenti climatici, il trend non sembra essere in miglioramento per gli anni a venire. Pertanto, risulta necessario che lo Stato si adoperi per garantire il finanziamento e l’efficientamento della rete idrica. La rete sarda ha una dispersione idrica che supera il 50%, con comuni dove si registrano picchi sino al 70%. Mentre il cambiamento climatico e la progressiva desertificazione conducono a una situazione drammatica, gli investimenti statali in materia di efficientamento idrico da un lato e le politiche di lotta alla siccità dall’altro, non sono sufficienti a garantire il godimento di un bene fondamentale come l’acqua. Nel 2024, una regione di un Paese membro del G7 non può essere costretta all’interruzione della rete idrica, anche per più di 22 ore al giorno, in intere aree territoriali. Mi riferisco in particolare ai territori di Ogliastra e Baronia, dove migliaia di cittadini, in alcuni periodi estivi, hanno avuto garantito il servizio idrico per sole 2 ore giornaliere.
    Un ulteriore pilastro che necessita di essere posto al centro del dibattito politico e parlamentare quando si parla di attuazione del principio di insularità, è lo sviluppo infrastrutturale e dei trasporti. La Sardegna è la regione con l’indice di infrastrutturazione più basso d’Italia. In Sardegna la dotazione infrastrutturale è pari a 50,5 punti (su 100) contro il 78,8 che si registra nel resto del Mezzogiorno. Inoltre, La Sardegna è l’isola europea geograficamente più isolata rispetto al continente; ha un mercato interno molto ridotto (un milione e 580mila residenti) e disperso (68 abitanti per chilometro quadrato). È pertanto caratterizzata da insularità e perifericità non solo rispetto al resto del Paese, ma anche al suo interno. Ciò produce non solo un incremento dei costi, ma crea anche discontinuità, aleatorietà, ritardi e debolezza nelle connessioni e nei processi di diffusione spaziale dello sviluppo. Nello specifico, l’Isola occupa, in termini di infrastrutturazione, il 177° posto su 244 regioni. Le politiche statali di supporto al problema infrastrutturale e dei trasporti non possono essere incentrate solo sulla continuità territoriale con l’esterno. Le politiche infrastrutturali e di mobilità devono porre al centro del dibattito e dell’agenda del Governo anche e soprattutto la mobilità interna. L’assenza di investimenti e di programmazione in materia infrastrutturale ha delle ricadute soprattutto all’interno dell’Isola, influisce negativamente sullo sviluppo dei territori e crea quella condizione che amaramente viene definita “isola nell’isola”. Per concludere su questo tema, La Sardegna è l’unica regione che, senza essere servita da neanche un’autostrada, presenta ancora infrastrutture ferroviarie fatiscenti e non certamente competitive, eppure non risulta essere beneficiaria di alcun intervento infrastrutturale di sistema né improntato allo sviluppo di reti della mobilità.
    Tutto ciò premesso, risulta chiaro che a servire sono investimenti in materia di infrastrutture tecnologiche, investimenti nella formazione e nel miglioramento del capitale umano e, ancora, politiche pubbliche che mirino alla resilienza sociale ed economica. È necessario che lo Stato finanzi politiche di sviluppo centrate sull’ attrazione del capitale umano, anche mediante il potenziamento e la creazione dei centri di ricerca.
    Bene, quindi, quanto si sta facendo sull’Einstein Telescope nel territorio di Lula. Questo modello, dove Stato e Regione lavorano all’unisono per creare centri di eccellenza mondiale in grado di garantire, da un lato, attrazione di forza lavoro specializzata e, dall’altro, sviluppo sui territori, dovrebbe diventare una best practice che, funzioni da volano socioeconomico per i territori.
    Strettamente connesso alla tematica dell’attrazione di investimenti e alla ricerca, voglio segnalare che la mia regione è tra quelle che ha un maggior numero di NEET (persone giovani inattive nell’istruzione, lavoro o formazione), eppure risulta essere una delle regioni maggiormente colpita dai tagli derivanti dal dimensionamento scolastico.
    Ancora, l’applicazione di politiche pubbliche in maniera uniforme sul territorio nazionale, senza tener in debita considerazione le specificità territoriali e, in particolare, le difficoltà derivanti dall’insularità e dalla conformazione urbana delle Regioni, rischiano di favorire e accentuare disastri sociali già in essere.
    La Sardegna è una delle regioni con grandi difficoltà sotto il profilo demografico (bassa percentuale di nascite ed esponenziale aumento dell’età media della popolazione al punto che le pensioni superano gli stipendi) eppure lo Stato non ha mai davvero posto in essere delle politiche di attrazione di investimenti e tantomeno politiche di attrazione del capitale umano.
    In questo contesto risulta più che mai necessario adoperarsi, in uno spirito di leale collaborazione tra Stato e Regione per la definizione e la programmazione oculata e mirata del Fondo di Sviluppo e Coesione, principale strumento finanziario per affrontare il gap di sviluppo. Per anni la Regione e lo Stato hanno programmato in maniera poco efficiente tali risorse e ciò ha portato a una bassissima capacità di spesa. La fotografia attuale della programmazione del Piano di Sviluppo e Coesione della Sardegna 2000-2020 che, come noto, raggruppa tre cicli di programmazione FSC, ci dice che solo il 47% di quando stanziato è stato speso e che circa 300 milioni di interventi saranno definanziati.
    Questo è il risultato di una programmazione non calibrata e non ancorata alle esigenze dei territori né dimensionata sulla capacità amministrativa degli enti.
    La soluzione al problema non può essere una governance dei finanziamenti destinati alle Regioni sbilanciata sul livello statale – come quella che sempre più si delinea per il FSC, – perché un eccessivo centralismo, riducendo la flessibilità delle procedure, complica notevolmente la gestione degli interventi.

E allora lo ripeto: è sempre più necessario e urgente un cambiamento del paradigma: servono politiche e programmazioni condivise e serve una governance multilivello dei programmi che non riduca le Regioni al ruolo di soggetti attuatori, soprattutto nel caso delle regioni insulari che scontano differenze strutturali specifiche che, come tali, vanno affrontate.

In assenza di meccanismi di flessibilità e di dialogo costruttivo, si rischia di condannare ad ulteriore sottosviluppo le stesse regioni che con la riforma costituzionale del 2022 si è voluto tutelare mediante l’inserimento del principio di insularità. Uno degli obiettivi della mia giunta è proprio quello di favorire una definizione del FSC, attualmente in fase di costruzione, che possa garantire un adeguata programmazione e capacità di spesa.
Tuttavia, come dicevo in premessa, le risorse economiche e gli interventi finanziari sono solo una faccia della medaglia. Ritengo che un aspetto altrettanto importante siano le politiche sociali, sanitarie e, soprattutto, di istruzione pubblica. Come si pensa di ridurre gli svantaggi dell’insularità quando si taglia sull’istruzione? Quando non si investe in ricerca o quando non si investe in mobilità e in interconnessione?
Infine, come nota di metodo, sarebbe bene che la Commissione paritetica per l’insularità costituita presso il MEF divenisse una sede permanente di confronto tecnico sulle condizioni e sulle politiche insulari. In questo modo, i contributi delle regioni insulari, di questa commissione bicamerale e della commissione del MEF, lavorando all’unisono, potrebbero veramente cambiare il paradigma d’intervento e dare gambe e sostanza al principio di insularità. Fintanto che si continuerà a lavorare in maniera spot, ricordandoci del principio di insularità solo in sede di legge di bilancio, continuerà l’utilizzo inefficacie di risorse pubbliche senza alcun beneficio per le popolazioni insulari.

 

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